I benefattori, le aziende, gli immobili della Fondazione An, il merchandising dell’ex forzanovista e poi il 2 per mille e l’obolo dei parlamentari. Così FdI fa utili e tiene in banca 3 milioni su 8,7 di entrate. La prima puntata della nostra inchiesta sui conti dei partiti

Gli amici si vedono nel momento del bisogno. E quali momenti più bisognosi esistono in politica, se non quelli delle campagne elettorali? Ecco allora che Paola Francesca Ferrari, conduttrice in Rai di 90° minuto, dà 40 mila euro ai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Si potrebbe sospettare che la giornalista, volto storico di Rai sport, abbia riguadagnato piena visibilità nella tivù di Stato, dopo la cocente epurazione dalle trasmissioni dei Mondiali di calcio in Qatar, grazie alla vittoria della destra. Cui anche lei avrebbe dato un piccolo contributo.

 

Ma per Paola Ferrari, nuora dell’ex editore del gruppo Repubblica-L’Espresso Carlo De Benedetti, è invece solo una questione di fede. E di amicizia. Nel 2008 tenta la via del Parlamento con la sua amica Daniela Garnero Santanchè, candidata premier della Destra di Francesco Storace. Senza fortuna. Il loro sodalizio tuttavia continua, sia pure in altalena, e oltre i confini della politica.

 

Nel 2014 la giornalista Rai entra in società con Santanchè in Visibilia editore. Un annetto e volano gli stracci. Paola Ferrari si dimette dalla presidenza di Visibilia e presenta una denuncia per infedeltà patrimoniale in relazione alle acquisizioni dei periodici Novella 2000 e Visto. Che però finisce archiviata. E se l’amicizia sembrava irrimediabilmente in crisi, ora è acqua passata. Neppure quattro mesi fa, il 17 luglio 2023, mentre infuria la bufera sulla ministra del Turismo scatenata da un’inchiesta di Report, Paola Ferrari compra per 200 mila euro il 25 per cento di Visibilia concessionaria. Perché gli amici si vedono nel momento del bisogno.

 

E come si reggerebbe oggi anche la politica, ormai disintossicata dai rimborsi elettorali, senza che gli amici offrissero continue prove di generosità? Anche se «offrire» in molti casi, è una parola grossa. Più che una scelta libera, infatti, è una scelta obbligata. La fonte principale di finanziamento dei partiti oggi sono i contributi dei loro parlamentari. Lo faceva un tempo solo il Partito Comunista. Da quando è finita la pacchia dei rimborsi lo fanno tutti. Nel 2022 più del 40 per cento delle entrate di Fratelli d’Italia, pari a 8,7 milioni e praticamente raddoppiate rispetto al 2021, sono state garantite da questa voce. Un salasso che non ha risparmiato nessun onorevole della fiamma. I versamenti più cospicui, quelli di Giulia Cosenza: 51 mila euro. Ed è ancora niente, se è vero che per la campagna delle elezioni europee il partito ha chiesto ai suoi eletti uno sforzo ancora più straordinario (richiesta che non tutti, a quanto pare, hanno accolto con giubilo).

 

Certo, le tasche da cui attingere sono molto più numerose di quando l’avventura di Giorgia Meloni è iniziata. Nel 2013 Fratelli d’Italia aveva 13 deputati e senatori. Nel 2018 erano già 61. Adesso sono addirittura il triplo: 181. Un sacco di tasche e un sacco di soldi. In ogni caso il partito incassa più da loro che dai contribuenti che destinano al partito il 2 per mille delle tasse: circa 3,5 milioni contro 3,1. 

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E dire che pure il gettito del 2 per mille è aumentato vertiginosamente. Nel 2015, primo anno di applicazione del nuovo sistema di finanziamento dei partiti, a Fratelli d’Italia erano stati destinati poco più di 135 mila euro da 56.362 contribuenti, con una media pro capite di 2 euro e 40 centesimi. Nel 2022 sono arrivati invece oltre 3,1 milioni da 233.874 contribuenti. In media, 13 euro e 39 centesimi.

 

Mentre i contributi delle imprese languono: 510 mila euro. Che per il partito di Giorgia Meloni sono comunque un record assoluto. Nella lista ci sono i 40 mila euro della Confagricoltura di Massimiliano Giansanti, che non fa mai mancare il sostegno al partito. Anche se il partito sembra avere maggiore feeling con la Coldiretti di Ettore Prandini. E poi i 50 mila della I.V.P.C. di Oreste Vigorito, patron del Benevento calcio e amico di Clemente Mastella, nonché ritenuto il papà dell’energia eolica italiana. E i 30 mila del gruppo Cremonini. E i 26 mila del Twiga di Flavio Briatoree Daniela Garnero Santanchè (prima della sua nomina a ministra del Turismo). Più altre frattaglie, tipo i 5 mila euro di “Verde è popolare”, associazione ambientalista dell’ex democristiano Gianfranco Rotondi, eletto con FdI.

 

Denari comunque decisivi per far tornare i conti. Il bilancio 2022 è finito in archivio con un utile di mezzo milione e quasi tre milioni di soldi liquidi in banca. Mica male, per un ex partitino che aveva debuttato nove anni prima con poche persone, scarse risorse e un bilancio in perdita per 158 mila euro. Agli albori, poi, non si vendevano neppure i gadget. Magliette, portachiavi, tazze, cappelli e accendini con gli slogan del tempo che fu, dal «Memento audere semper» di Gabriele D’Annunzio a «Le radici profonde non gelano» del Signore degli anelli di John Ronald Tolkien. Cose che adesso, a giudicare dal giro d’affari della società che li ha gestiti fino alla fine del 2021, vanno letteralmente a ruba. In tre anni la People service, questa la sigla, ha fatturato qualcosa come un milione e mezzo. Ora la società responsabile dell’oggettistica di Fratelli d’Italia si chiama in un altro modo: Italica solution. Ma il titolare è sempre il medesimo. Il suo nome, Martin Avaro. È l’ex capo di Forza Nuova del quartiere Salario, a Roma. Per la serie, appunto, che «Le radici profonde non gelano». Frase comparsa qualche anno fa in un manifesto per il tesseramento di Forza Nuova sotto una fotografia di Benito Mussolini.

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Perduti i rimborsi elettorali, i partiti si sono dovuti organizzare. C’è chi ha sofferto, come Forza Italia, Lega e Pd. E chi invece non altrettanto. Fratelli d’Italia è nato quando il giro di vite era già in atto, ma senza il costoso apparato che avevano altri sul groppone. Poi ci sono sempre i contributi pubblici, mai cancellati del tutto. I rimborsi elettorali sono stati sostituiti dal 2 per mille, che però garantisce oggi ai partiti sì e no un decimo di quelle somme. Per non parlare dello sgravio fiscale del 26 per cento: significa che chi versa 10 mila euro a un partito in realtà ne spende 7.400, perché i rimanenti 2.600 ce li mettono i contribuenti. Uno sconto fiscale maggiore perfino di quello riconosciuto a chi finanzia opere benefiche.

 

Né bisogna trascurare i contributi alla stampa di partito, ancora esistenti. In vent’anni il Secolo d’Italia, adesso esclusivamente online, ha incassato dallo Stato la bellezza di 34,1 milioni. Il presidente della società editrice è Filippo Milone, una delle figure chiave dell’apparato economico che regge il partito, sotto il segno di Ignazio La Russa. Per descrivere il tenore e la qualità dei loro rapporti, quando con il governo di Mario Monti l’attuale presidente del Senato deve lasciare la Difesa, il suo consulente e braccio destro Milone resta a presidiare il ministero con la carica di sottosegretario. Fattore comune fra i due è Salvatore Ligresti da Paternò. Di Ligresti La Russa da Paternò è qualcosa più che un amico: come fossero di famiglia. Suo figlio Antonino Geronimo è stato consigliere della holding Premafin. E anche Milone frequenta le società di Ligresti. Da un sacco di tempo. È lui, nel tramonto della prima Repubblica, che gestisce la Grassetto. L’impresa di costruzioni di Ligresti finisce come tante nel tritacarne di Tangentopoli e Milone ne fa le spese, sperimentando tutte le varianti dall’assoluzione in appello alla prescrizione. Prima che il suo nome spuntasse, un bel giorno, nelle intercettazioni dell’inchiesta sulla Finmeccanica, l’industria militare pubblica.

 

Adesso, a 71 anni, è consacrato alla politica. Il capo del Secolo d’Italia è anche consigliere di Italimmobili, la holding in cui sono state concentrate nel 2020 tutte le proprietà del fu Movimento sociale italiano, presieduta da Roberto Petri. Un altro fedelissimo di La Russa, responsabile della sua segreteria alla Difesa. Primo dei non eletti aennini nelle liste del Pdl nel 2008, è subito risarcito con uno strapuntino (guarda caso) nel cda della Finmeccanica. E tre anni dopo con un’altra poltrona nel cda dell’Eni, nientemeno. Completa il consiglio di Italimmobili l’ex consigliere regionale della Basilicata Antonio Tisci. E tutti e tre hanno anche un posto nel consiglio della Fondazione Alleanza nazionale.

 

Costituita nel 2011 dopo la diaspora di Futuro e libertà per l’Italia di Gianfranco Fini, la Fondazione An riunisce in qualche modo tutti gli eredi della galassia missina. C’è Gianni Alemanno, che ha fondato un nuovo partito a destra di Fli. C’è Maurizio Gasparri, ora in Forza Italia. E c’è Italo Bocchino, che aveva seguito Fini. Alemanno e Gasparri sono anche fra i sei membri del comitato esecutivo presieduto da Giuseppe Valentino nel quale figura anche La Russa.

 

Ma nonostante ciò la Fondazione altro non è che il forziere di Fratelli d’Italia. Dentro c’è una settantina di immobili. Il valore dei suoli asset è decisamente ragguardevole, ben oltre il patrimonio netto di 55 milioni che denuncia il bilancio 2022. Che qui i soldi non facciano difetto, del resto, lo dicono con chiarezza i quasi 30 milioni di depositi e titoli custoditi in banca, da Unicredit a Intesa, da Bpm a Deutsche bank a Banca Generali. All’atto della fusione con Forza Italia, nel 2009, si parlava di una cifra non lontana dai 350 milioni. Un’esagerazione? Chissà. Certo era prima della battaglia legale innescata dai fedeli di Fini, chiusa dai commissari liquidatori nominati una decina d’anni fa dal tribunale. Da allora la Fondazione si identifica nei fatti con il partito di Giorgia Meloni, che contribuisce a finanziare (40 mila euro lo scorso anno). Proprietaria delle federazioni, affitta i locali al partito che paga regolarmente le pigioni. Ma i soldi restano tutti in casa. Ovviamente.

 

Non senza qualche incidente di percorso. Per esempio l’eredità della contessa Anna Maria Colleoni, pro-pro-pronipote del capitano di ventura Bartolomeo Colleoni. Così fascista che al confronto Assunta Almirante sembrava di sinistra, la nobildonna un giorno dice a Fini: «A Gianfra’, se te comporti bene quando me moro te lascio tutto», racconta nel 2010 sul Giornale l’attuale direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci. E fa proprio così. Totale dell’eredità, 4,3 milioni di euro secondo l’Agenzia delle Entrate. Ci sono terreni edificabili, titoli e immobili. C’è anche un appartamento a Monte Carlo, che Fini cede per 300 mila euro a una società dietro cui, pare a sua insaputa, c’è Giancarlo Tulliani. Cioè il fratello della sua compagna. Il terremoto che investe l’ex leader di An pone fine alla sua carriera politica. Nel 2015, mentre le cause giudiziarie sono ancora in corso, il settimanale Oggi rivela che l’appartamento è in vendita per 1,6 milioni.

 

Ma nel legato Colleoni di appartamenti romani ce ne sono pure altri. Il più prestigioso è in via Paisiello al civico 40. Nel 2012 viene occupato da un manipolo capitanato da Giuliano Castellino, lo stesso che guiderà nel 2021 l’assalto alla Cgil di Corso d’Italia. «Per assegnarlo alla Destra» di Francesco Storace, dichiara. E Storace ringrazia. Quindi diventa sede del Giornale d’Italia. Ben presto però rioccupato, stavolta da Roberto Fiore. Resistono fino all’inevitabile sfratto sollecitato al tribunale dalla Fondazione. Prova provata che la «contiguità» fra Forza Nuova e FdI, di cui si continuerebbe «a favoleggiare», non esiste. Pensieri e parole del Secolo d’Italia. 

 

  1. Continua