Nel nostro Paese molte indagini contro il radicalismo nascono da “fonti confidenziali”: sono i responsabili dei luoghi di culto che avvertono la polizia. Il buon livello di collaborazione con le forze dell'ordine e le istituzioni fa parlare gli studiosi di "modello italiano". Ma la destra li criminalizza

L'allarme terrorismo torna a trasformarsi in emergenza: come si può contenere un rischio di scala internazionale che sembra incontrollabile? Come si contrasta la violenza jihadista? Dagli studiosi più esperti arrivano risposte ragionate che descrivono una specie di modello italiano, che influenza anche le indagini delle forze di polizia. È l’opposto dello scontro di civiltà. Si basa su rispetto, collaborazione, dialogo. Se ne trova conferma in molte delle inchieste più importanti degli ultimi anni, che hanno smantellato reti di reclutamento di combattenti, evitato attentati, isolato e allontanato predicatori di odio. Contro il terrorismo jihadista, dicono queste indagini, i nostri più preziosi alleati sono i musulmani normali, le decine di migliaia di famiglie che vivono in pace nel nostro Paese, vanno a pregare nelle moschee, fanno parte di una comunità islamica, conoscono chi la frequenta. Gran parte delle segnalazioni sono arrivate da qui, soprattutto dalle moschee più grandi, ufficiali, con il minareto e tutte le autorizzazioni. Ma negli atti giudiziari resta scritto solo «fonte confidenziale».

 

«È molto importante evidenziare questo aspetto, che di solito non è considerato», spiega un importante dirigente della polizia che ha guidato numerose inchieste sul terrorismo jihadista. «È sbagliato parlare di soffiate o di confidenti: non si tratta di denunce anonime. Ci sono interessi comuni, c’è una condivisione dei problemi che favorisce la collaborazione: i responsabili di molte moschee sono persone intelligenti e sanno che il terrorismo è una tragedia per tutti, per la polizia italiana e per la comunità musulmana».

 

All’origine delle «fonti confidenziali» ci sono familiari o amici del giovane radicalizzato, che sta subendo su Internet «il lavaggio del cervello» o è già partito per una «guerra santa». Sono preoccupati e addolorati, ne parlano con altri, la notizia arriva alla moschea e, se l’allarme è serio, l’imam trova il modo di avvisare la questura o i carabinieri. 

 

Uno dei casi che hanno più impressionato magistrati e poliziotti ha avuto per protagonista un papà musulmano che vive e lavora in Lombardia da più di trent’anni. È un tradizionalista, con una visione religiosa integralista, ed è addirittura un reduce: negli anni Novanta era andato a combattere in Bosnia «per difendere la popolazione musulmana dai massacri serbi». Un bel giorno, va in un commissariato e denuncia suo figlio. È partito per la Siria, è andato in guerra con un gruppo islamista che lui stesso considera terroristico. Il padre è distrutto: ha capito che l’unica speranza è farlo arrestare e riportare a casa dalla polizia italiana. Finisce male: il figlio muore in battaglia, al papà arriva solo un video straziante della sua agonia. Ma l’indagine va avanti e blocca la rete di reclutamento.

 

Un’altra inchiesta nata in questi anni da una comunità islamica riguarda una ventina di jihadisti che stanno spostando la guerra civile siriana tra Milano e Roma: organizzano agguati e pestaggi contro musulmani disarmati e siriani di fede cristiana. Le vittime, terrorizzate, ne parlano con altre famiglie, che frequentano una delle maggiori moschee lombarde. A denunciare i capi della rete jihadista è un delegato dell’imam. La solita «fonte confidenziale».

 

Nel periodo peggiore, quando l’Isis spadroneggia in Siria e Iraq, un giovane radicalizzato su Internet si presenta in viale Jenner, a Milano, nella moschea più contestata dalla destra. Vuole andare a combattere e chiede complicità, convinto anche lui che lì dentro siano terroristi. L’imam, egiziano, è un rappresentante dei Fratelli musulmani, la storica organizzazione integralista che è salita al potere in nazioni come Qatar e Turchia. L’ultrà dell’Isis viene sbattuto fuori dalla moschea. Quindi l’imam chiama la polizia e lo denuncia.

 

«In Italia, a differenza di altre nazioni, c’è un buon livello di collaborazione delle leadership islamiche con le istituzioni e le forze di polizia», osserva il professor Stefano Allievi dell’Università di Padova. «Il caso italiano viene studiato all’estero. In Paesi come Francia, Belgio, Gran Bretagna ci sono comunità musulmane, anzi interi quartieri chiusi a riccio: con le forze di sicurezza non si parla. Le loro indagini sono monopolizzate dai servizi segreti, che dipendono dai governi. E gli studi mostrano che nelle inchieste condizionate dalla politica aumentano errori e falsi allarmi».

 

Allievi insegna sociologia e ha diretto il primo censimento di tutte le moschee in Italia. «In questi anni – spiega – i problemi di sicurezza hanno riguardato soprattutto i centri islamici più piccoli e incontrollabili, ricavati in garage e sedi di fortuna. Alcune comunità, nel Nordest, hanno subito l’influsso di imam itineranti provenienti dai Balcani. Ma i dati sul reclutamento confermano che la distorsione jihadista è rimasta isolata: in Italia i foreign fighters si contano a decine, in Belgio a centinaia, in Francia e Inghilterra a migliaia».

 

Lo studioso francese Olivier Roy ha descritto la «nascita di un jihadista» come un fenomeno tipico della seconda generazione: giovani nati in Europa che si sentono esclusi, traditi dall’Occidente. «I più sono paragonabili ai convertiti», chiarisce Allievi: «Hanno un passato tutt’altro che religioso, subiscono l’ideologia jihadista come rivolta generazionale, rabbia sociale. La rete di relazioni conta più della religione. Lo confermano anche i casi italiani, da Giuliano Delnevo a Maria Giulia Sergio». Oggi il grande problema sono i canali di propaganda: il Web, ma anche il carcere. La sicurezza totale non esiste: qualunque esaltato può fare la sua jihad, basta un coltello o un’auto. Ma per scoprire le organizzazioni terroristiche più strutturate, in grado di causare eccidi enormi, è fondamentale l’aiuto delle moschee, di tutti i pacifici musulmani d’Italia.