Il Paese africano, distrutto da un conflitto che va avanti da 25 anni, è il posto peggiore in cui essere donna secondo le classifiche internazionali. Ma c'è anche chi dà una speranza, come spiega l’attivista per i diritti umani Christine Schuler Deschryver, direttrice del centro che aiuta le vittime di violenza

Un conflitto che va avanti da oltre venticinque anni. Iniziato per il controllo delle ricchezze del sottosuolo, soprattutto del coltan, fondamentale per l’industria elettronica e il funzionamento degli smartphone. E che nelle ultime settimane è tornato a crescere a causa dei combattimenti tra le forze armate della Repubblica Democratica del Congo e i ribelli, tra cui quelli del gruppo M23, nell’Ituri e nelle province del nord e sud Kivu, nella parte orientale del Paese. 

 

Di pari passo con l’intensità del conflitto è cresciuto anche il numero delle persone costrette a scappare dalle proprie case e di quelle che necessitano assistenza umanitaria. E delle donne vittime di violenza. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr, ad esempio, delle oltre 10 mila persone che hanno avuto accesso ai servizi di assistenza per la violenza di genere nel Nord Kivu nel primo trimestre del 2023, il 66 per cento è stata vittima di stupro. Per la maggior parte commessi da uomini armati. 

 

I dati sono parziali sia perché raggiungere gli sfollati non è facile per le organizzazioni umanitarie, sia perché sono molte le donne che non denunciano. Per paura di ritorsioni da parte degli autori, per paura di essere stigmatizzate dalle comunità a cui appartengono. 

 

«La situazione oggi nell’est della Repubblica democratica del Congo è esplosiva. Lontano dalla luce dei riflettori continuano i combattimenti, gli stupri e le violenze. Ci sono più di 7 milioni di sfollati all’interno del Paese che non ricevono aiuto», spiega Christine Schuler Deschryver, direttrice della Città della Gioia, che ha fondato insieme a Eve Ensler, l’autrice dell'opera I monologhi della Vagina, grazie al cui operato ha preso vita il V-day, movimento rivolto ad abbattere ogni forma di violenza su donne e bambine. E con loro c'è il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace del 2018 per il suo impegno a favore delle donne vittime di stupri di guerra.

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«L’idea della città della gioia è nata nel 2007, quando la drammaturga Ensler venne a Bukavu e chiese alle sopravvissute che cosa volessero. La risposta è stata subito chiara: “Un rifugio in cui autodeterminarsi e un posto sicuro per guarire la mente”. E così è successo: abbiamo aperto nel 2012. La città della “Città della gioia” è un posto completamente diverso da quelli a cui siamo abituati, non ha nulla a che fare con l’assistenza. L’obiettivo è la guarigione emotiva e insegnare alle ragazze come riprendere in mano i loro destini, i loro corpi, il loro Paese». 

 

Tra le tante donne che ha incontrato e aiutato, Schuler Deschryver parla soprattutto di Jane, che è anche la protagonista del documentario Netflix “The city of Joy”: «Perché la sua storia è il simbolo del lavoro che facciamo. Non riesco proprio a immaginare la mia vita senza di lei, perché lei è la Città della gioia, è lei che ha sussurrato l’idea di costruire un posto del genere a Eve Ensler. Jane ha trascorso 10 anni in ospedale e ha subito 14 interventi chirurgici come conseguenza delle violenze subite. Sembrava impossibile “ripararla”. Era stretta con il suo dolore, distrutta dai molteplici stupri che ha subito dalle milizie nella foresta. È stato mio fratello a portarla da noi, in fin di vita: aveva 16 anni. Da quel giorno l’ho letteralmente adottata, mi sono presa cura di lei come se fosse stata mia figlia. Adesso lavora con noi, ha un buon stipendio, si è costruita la casa e ha adottato quattro figli». 

 

Come si legge spesso, anche secondo la direttrice del centro di Bukavu, il Congo è il posto peggiore al mondo per essere una donna. A causa dell’elevatissima probabilità di essere vittima di violenza. «Gli stupri vengono usati come arma di guerra. Per terrorizzare la gente. Parlo di terrorismo sessuale da anni, altrimenti come si potrebbe definire un uomo che violenta un bambino di 4 mesi? O una donna di 85 anni?», si chiede Schuler Deschryver mostrando disgusto al pensiero delle cose che ha visto. Delle storie che ha ascoltato a causa del suo lavoro: «Sono nata nella Rdc da padre belga e madre congolese. A 12 anni ho lasciato il mio Paese per andare a studiare in Belgio. Ma ho sempre saputo che il mio posto era nella Repubblica Democratica del Congo. Così sono tornata. Adoro il mio lavoro, non vorrei fare altro. Imparo cose nuove ogni giorno. Mi sento utile». 

 

Come spiega Schuler Deschryver, «ci sono tante, troppe, donne che non sanno ancora nemmeno di avere dei diritti. Dobbiamo insegnare loro a leggere e scrivere, che cosa sia la giustizia. Come rompere le silenzio. Questo è quello che facciamo alla Città della Gioia. L’educazione è fondamentale. E la solidarietà: nel mondo noi donne portiamo avanti le stesse lotte. Appena c'è una guerra sono i nostri corpi che diventano campi di battaglia. Combattiamo da secoli e ancora non abbiamo gli stessi diritti degli uomini. Dobbiamo unirci, diventare più forti: l’uguaglianza di genere migliorerebbe le società in cui viviamo, siamo noi donne che portiamo avanti il mondo».