Il Sole 24 Ore recentemente ha messo sotto i riflettori le difficoltà di circa 500 mila famiglie nel pagamento delle rate dei mutui a tasso variabile per una cifra di circa 60 miliardi di euro. La lotta della Bce all’inflazione da costi, perseguita con i rialzi dei tassi di interesse e la riduzione della liquidità sul mercato finanziario, sta provocando enormi danni ai cittadini più deboli, prevalentemente giovani, indebitatisi per acquistare la casa.
La rata di un mutuo a tasso variabile di 100 mila euro subisce un aumento dai 3.000 ai 4.000 euro annui. Tale aumento aiuta a capire in che razza di ginepraio si stanno trovando questi cittadini, i cui redditi lordi annui difficilmente superano i 20-22 mila euro. Il Paese corre il rischio di trovarsi di fronte a migliaia di famiglie sul lastrico. La banca, infatti, dopo sei rate non pagate del mutuo, può procedere all’esecuzione immobiliare che prevede la vendita coatta della casa ipotecata, alimentando una fase di credit crunch e il deprezzamento generalizzato sul mercato dei valori immobiliari.
Il governo, di fronte a questo scenario, che comporta effetti negativi sulla domanda aggregata, in calo da due anni, e che coinvolge un settore, quello immobiliare, trainante nello sviluppo economico nazionale, ha preferito non affrontare il problema, lasciando che il barcone dei mutuatari a tasso variabile fosse trascinato dalla corrente. La ragione di fondo non sta nel che fare, ma, come ha precisato il ministro Giancarlo Giorgetti in occasione dell’audizione sul disegno di legge di bilancio, «nella scarsità delle risorse del bilancio pubblico e nella modestissima crescita dell’economia».
Che lo stato dei conti pubblici sia complicato nessuno lo nega. E tuttavia, non possiamo fare a meno di sottolineare che il governo nella predisposizione della legge di bilancio, prima di preoccuparsi dei gravissimi disagi dei ceti meno abbienti, ha fatto di tutto per mantenere in piedi misure identitarie costose, care ai propri elettori.
Alcuni spunti li fornisce il documento dell’Ufficio parlamentare del bilancio (Upb). Uno riguarda la quota 103, in luogo di 101, per andare in pensione. Il grimaldello di Matteo Salvini per smontare la legge Fornero. Nonostante il tentativo sia fallito, il governo ha confermato il provvedimento, che alla fiscalità costa 0,6 miliardi nel 2023, 1,4 miliardi nel 2024 e circa 0,5 miliardi nel 2025. Un altro spunto riguarda l’elevazione della flat tax da 65.000 euro a 85.000. Tale variazione comporta un beneficio medio annuo per ogni soggetto aderente di circa 7.700 euro, con la stima di minori entrate per lo Stato di 404 milioni. Lo stesso per le agevolazioni nelle controversie tributarie che, sempre secondo l’Upb, ridurranno le entrate fiscali di 1,1 miliardi nel 2023 e aumenteranno per 0,9 e 0,7 miliardi nel 2024 e nel 2025.
Il governo, con l’abbandono delle misure identitarie, avrebbe reperito delle risorse finanziarie pubbliche per alleviare il salasso che tocca circa 500 mila famiglie, aumentando l’importo della detraibilità degli interessi passivi, attualmente di 40.000 euro, nella denuncia dei redditi. Forse non avrebbe risolto il problema. Avrebbe, però, dato tanta più forza e tanto più coraggio a queste famiglie in grave difficoltà a stringere ulteriormente i cordoni della borsa per vincere la paura di trovarsi in mezzo alla strada.