Scorci, dettagli, piccole e grandi lezioni universali che la natura ci dà

«L’autunno era già in agonia. Di notte le siepi brillavano e la luna s’era fatta più fredda del sasso, e così ferma, rotonda e precisa come può essere solo a Natale: le due nubi che le eran d’attorno parevano aria appannata». Così in modo magnifico scriveva Silvio D’Arzo in “Casa d’altri”, racconto lungo pubblicato nel 1952, capolavoro della letteratura italiana non abbastanza sottolineato (per quanto Eugenio Montale al tempo lo definì “perfetto” e Walter Siti ora in una postfazione ne sviscera la grandezza). Scandire il paesaggio attraverso un costante scolpire la realtà che si dilata intorno a una vicenda, descrivendo di quel paesaggio scorci, dettagli, piccole e grandi metafore quelle anche “naturali”, perché prese a prestito dalla Natura. Interessante osservare come le forme di descrizione del paesaggio cambino e si trasformino a proporzione del mutare dei nostri rapporti con la stessa Natura. Considerare la sua presenza o invece assenza nella produzione letteraria contemporanea, intendendo entrambe, ricorrenza o non presenza dei paesaggi naturali, come chiavi d’interpretazione di massima densità, eloquenti di una condizione di narratori. Perché è indubbio che quella del descrivere paesaggi sia tecnica capace di prospettare una lettura del presente che da sé sola la mera narrazione non arriva a imporre. Altrettanto indubbio, come la presenza della Natura nelle descrizioni arrivi a dar forma a una visione ampia, prismatica, che invece, a considerare diversi romanzi contemporanei secondo il criterio dell’analisi di trame e intrecci di psicologie umane, pare sbiadita o comunque molte volte sul punto di sfuggirci del tutto.

 

Necessario, anche liberatorio, offrire respiro a quelle stesse trame di finzione espandendole verso i loro panorami: virando storie partorite dalla fantasia in direzione dei loro paesaggi, frangenti dove siano piante, cieli, animali a raccontare quanto l’umano, il suo accadere, dannarsi, risolversi, dialogare, da sé solo non riesce a contenere e dire. Intercettare «il desiderio di vivere i nostri paesaggi in modo profondo e grandioso»: come si esprime Janisse Ray, scrittrice e attivista naturalista statunitense, in un saggio da poco tradotto in Italia (“Wild Spectacle. Alla ricerca di meraviglie in un mondo oltre l’umano”, con prefazione di Matteo Meschiari, Meltemi). Tenendo fisso (catalizzato) lo sguardo su tutto quanto è “selvaggio” (“wilderness”), l’autrice sviluppa la sua riflessione mettendo a fuoco una sorta di necessità psicofisica corrispondente: «Abbiamo bisogno di luoghi dove le nostre menti e i nostri corpi, i nostri occhi possano riposare», scrive. Paesaggi portatori di sollievo, in virtù di una dinamica ossigenante che lavora da contrappeso, in direzione contraria rispetto alla forza centrifuga delle trame “solo” umane.

 

Paolo Cognetti

 

Dare più spazio alle storie implica allora l’arricchirle di più spazio nel senso di più paesaggio? E quel genere di riposo per lo sguardo invocato da Janisse Ray, dove trovarlo? In “Giù nella valle”, nuovo romanzo di Paolo Cognetti (Einaudi), l’atmosfera è quella già respirata in altri suoi libri, montana, ampia, vibrante data l’altitudine. «Piccoli orti, qualche catasta di legna, un mulo. Le case dai muri di pietra. La roccia che affiora dal terreno, i torrenti non arginati, la civiltà che si allontana». Abissi e dirupi gonfi del silenzio che regna in montagna, in un contesto generale di natura “traslata” (descrivendo la Val Slesia, Cognetti racconta il Nebraska vagheggiato da ragazzo ascoltando Bruce Springsteen).

 

Traslazione è scarto dell’immaginazione. Saper vedere e poi restituire sulla pagina panorami inventati, o ricostruiti sotto l’impulso trascinante di una fantasia ricca di memorie “reali”. (Recita un apologo zen: «Perché vedi così bene? Perché ho gli occhi chiusi»). Con l’esattezza necessaria a una finzione che risulti plausibile, dar forma a paesaggi come sanno fare narratori forti della capacità di saper ri-vedere panorami reali. Così nell’incipit di “Romanzo senza umani” di Paolo Di Paolo (Feltrinelli). Una storia che prende avvio in un «paesaggio stravolto, inospitale, infido» nel mezzo di un «inverno indicibile, senza luce», con un lago che per tutto il libro resta leitmotiv più metaforico che non geografico in senso letterale. Lo stesso Di Paolo sembra suggerire una prospettiva post-contemporanea, dove il narratore è pensato “fuori” dal paesaggio, e quest’ultimo è inteso come traccia visibile di molte (invisibili) altre ere che lo hanno preceduto. Un paesaggio “senza umani”, per come si definisce e si racconta nel mistero di un suo scabro, spettrale enigma, data l’assenza di chi sarebbe deputato a raccontarlo.

 

Stendhal asserì che scrivere un romanzo è come camminare con uno specchietto in mano: si deve poter raccontare la spaziosità dei cieli, tanto quanto l’angustia melmosa delle pozzanghere sul selciato. Una concezione del narrare che intende la Natura come a tutto tondo e fondamentale; dove umano e non umano, personaggi e paesaggi, è giocoforza si amalgamino gli uni con gli altri, riverberandosi gli uni sugli altri. Visione certo oggi molto modificata. Tra “traslazioni”, re-invenzioni, paesaggi senza umani, la Natura sempre più pare scollata dalle trame, e queste con maggior fatica rispetto al passato ricondotte, integrate e amalgamate ai loro paesaggi.

 

Florence Williams

 

Né espedienti, né appendici, minuti o amplissimi che siano, scorci e panorami viene da augurarsi continuino a campeggiare nei romanzi, e prima ancora nelle menti creative che li generano. Così certo era prima della bulimia da “iperconnessione” virtuale. Nel suo “La cura della natura” (Piano B), Florence Williams considera uno a uno i molti effetti benefici che passare del tempo nella Natura ha non solo sull’attività mentale e il benessere psicofisico: anche sulla nostra creatività.

 

Nel suo saggio, empatia, stupore, libertà di inventare storie, nitore ed esattezza nel saperle raccontare e comunicare nella forma che più risulti convincente e coinvolgente: tutto, o quasi tutto, viene attribuito alla quantità di ossigeno (in senso letterale e metaforico) che sappiamo regalare ai nostri corpo e mente. Vivere il più possibile all’aria aperta, lontano da monitor, schermi (e schermature) e invece piuttosto nel mezzo di paesaggi e panorami, fa bene non soltanto alla nostra psiche. Anche alle storie che inventiamo. Perché la Natura non rigenera unicamente le nostre cellule cerebrali, anche il nervo vago, lì dove si sviluppa l’empatia, quella capacità di immedesimazione senza la quale un narratore fatica a scolpire qualsiasi genere di personaggio. I nostri romanzi hanno bisogno di panorami, di una vastità di prospettiva che non risenta di quella quotidiana claustrofobia coincidente con iperconnessione virtuale e certe ipertrofie egoiche che tanto ci ingombrano. Quei cieli e quelle pozzanghere invocati da Stendhal sono lì a riflettersi nei nostri romanzi / specchio. Basta fermarsi con sguardo limpido e ossigenato a osservarli con attenzione, poi con pazienza descriverli. Ancora e sempre, raccontare la vita pulsante della Natura che intanto scorre, lì fuori.