Gli esordi, Mike, il piacere della costruzione passo per passo. La radio con Vaime («Da lui ho imparato a pesare le parole») e il successo sul Nove («Sono molto felice di stare qua per quattro anni»). Gli aneddoti e il gusto della memoria. Un racconto a tutto campo dell'uomo che in televisione ha passato i suoi primi quarant'anni

Fabio Fazio entra nel suo ufficio, in centro a Milano, ogni pomeriggio, dalle 3 alle 8 per preparare con la sua squadra “Che tempo che fa”. La mattina studia tutti i dossier, le schede degli ospiti. E la sera guarda i film che servono per la settimana. Insomma, lavora sempre. Tranne il lunedì, come i parrucchieri. «Ed è per questo che non ci vado mai», dice. «Però da maggio a settembre sono in vacanza, quattro mesi, come se non avessi mai smesso di andare a scuola». Ed è stato anche promosso. La pagella parla chiaro, il programma più visto della storia del Nove. «Sì ma quattro anni sono tanti, non potrà andare sempre così. Per questo tutti i giorni dico: ma perché non la chiudiamo qua?». E ride, con un filo di timidezza, che ancora conserva dopo quarant’anni di carriera giusti giusti. «Ho scritto alla Rai per partecipare al concorso per i volti nuovi il giorno esatto del mio diciottesimo compleanno. Avevo una sola ambizione, andare a Roma a vedere gli studi, ma niente di più. Quando ho fatto il provino sono impazzito di gioia, ricordo tutto di quel giorno, persino l’orrendo maglione a rombi sul tono dell’azzurro che indossavo. E il 10 ottobre del 1983 mi hanno chiamato per un nuovo programma che si intitolava “Pronto Raffaella”. Onestamente non ho pensato neanche per un attimo che potesse essere il mio lavoro; invece, è andata come diceva Enrico Vaime: entrare in televisione è difficile, uscirne è praticamente impossibile».

 

Però i tempi sono abbastanza cambiati dagli anni Ottanta, quel piccolo schermo si è frammentato in mille possibilità differenti. «Vero, per la mia generazione l’unico cortile comune era la televisione e quello che veniva trasmesso. Oggi per i ragazzi la tv è un oggetto obsoleto, come tutto ciò che implica una fruizione condivisa. Ma nessuno si chiede più come ricostruire un immaginario che appartenga a tutti. Ormai i numeri sono cambiati, a guardare i palinsesti delle generaliste sono rimasti in pochi rispetto al passato. Nell’84, facevo le imitazioni su Rai Uno al “Loretta Goggi quiz” e dopo una puntata al secondo anno facemmo una grande riunione con tutti i dirigenti, arrivò il capostruttura che all’epoca era Brando Giordani, praticamente Gesù, e il tema era: per la prima volta siamo scesi sotto i 14 milioni. Una tragedia. Oggi se fai un programma da cinquecentomila persone diventi una prima serata di successo. Il problema è che bisognerebbe chiedersi come restituire alla tv pubblica l’appartenenza perduta».

 

Fabio Fazio a "Quelli che il calcio"

 

Cioè parliamo di progettualità, che sembra di questi tempi quasi una brutta parola a cui non sembra si pensi granché. «E non è una novità. Inventare qualcosa dovrebbe essere obbligatorio, invece da decenni tutti mandano in onda gli stessi programmi. Gli autori che ci mettono la faccia per tirare fuori dal nulla qualcosa di nuovo, ormai li conti sulle dita di mezza mano». Ma perché sono pigri o perché non sono più capaci? «Semplicemente perché non serve più a nessuno. Sarebbe come pretendere di costruire una sedia a mano quando ci sono quelle industriali stampate in plastica. Peccato che il bello e l’utile non coincidano quasi mai. Ciò che è bello è più costoso, è artigianale, e poi rischi perché può andare anche male. Ma è proprio quel processo lì, dell’azzardo, del salto nel vuoto che ti fa crescere».

 

Quindi non si investe, non si rischia, non si crea. Come se ci fosse una cesura totale tra ieri e oggi. Partiamo da ieri però, chi sono i nomi che stringe a sé? «Beh, Renzo Arbore ha insegnato alla mia generazione una lingua che prima non esisteva. Con lui siamo passati da “Signore e signori in questa splendida cornice…” a un signore che quella cornice l’ha rotta. Poi ovviamente Pippo Baudo, Enzo Tortora, e Mike Bongiorno. Mike è la televisione. La nostra prima volta? Andai a proporgli per “Quelli che il calcio” una diretta in cui lui sciava e io gli davo i risultati delle partite. Ne venne fuori un collegamento incredibile».

 

E la tv di oggi? C’è un nome su cui puntare? «Direi Stefano De Martino. Ha la fortuna di essere bello, è un ragazzo intelligente. Mi piace il suo programma “Bar stella”, è un po’ arboriano». Ma cosa è cambiato davvero rispetto al passato? «Guardi io ho avuto la fortuna di incontrare Bruno Voglino che mi ha letteralmente preso per mano, mi ha fatto crescere e non a caso ancora oggi lo chiamo mamma. Su di me hanno fatto un grande investimento ma perché la tv pubblica era questo, l’avere un progetto, una vocazione, la voglia di allevare i talenti. E no, tutto questo non c’è più». Meglio guardare la radio allora. «Ah che bella la radio. Ho fatto “Black Out” per 25 anni, ma i primi dieci partivo da Savona tutte le settimane in treno, in cuccetta con quattro sconosciuti per risparmiare e poi a piedi dalla stazione Termini a via Asiago, praticamente un viaggio della speranza. Però lavoravo con gente incredibile, Luciano Salce, Guido Sacerdote ed Enrico Vaime, un uomo di un’intelligenza e di una dolcezza estrema. La prima volta che lo vidi gli dissi buonasera. E lui: non ne vedo la ragione. Capisce che livello? Mi ha insegnato tutto, a partire dal concetto di patente. In tv e in radio, mi spiegava, non puoi pensare di dire tutto quello che ti passa per la testa o credere sia giusto farlo: è necessaria la patente. Che è molto difficile da prendere, serve l’esperienza, la pazienza e la consapevolezza di chi sei tu e di chi è il pubblico. Ecco, da lui ho imparato a pesare le parole».

 

Certo oggi anche di maestri ce ne sono pochini. «Perché anche i maestri non servono più, la funzione della televisione è completamente cambiata. Negli anni ’60 raccoglieva le persone più colte, coloro che sapevano tutto di teatro e che dovevano trasferire il varietà dal teatro alla televisione. Si cita sempre Umberto Eco tra i dirigenti Rai, certo, ma per la tv scrivevano anche Ennio Flaiano, Marcello Marchesi, Angelo Guglielmi, c’erano le eccellenze. Per questo era involontariamente pedagogica perché se tu sei l’eccellenza anche quando costruisci una scenografia, quella scenografia sarà naturalmente elegante e quel concetto verrà trasmesso a chi la guarda. Poi questa cura, questo tipo di funzione è finita piano piano con la tv commerciale sino a che la politica non è intervenuta. Adesso è ancora diverso, la televisione per legge dipende dal governo ed è del tutto naturale che obbedisca alle esigenze del momento». Che evidentemente ora non comprendono la televisione di Fabio Fazio. «Senta, adesso io sono per quattro anni al Nove, felicemente a Discovery, dove sto benissimo e dove voglio rimanere. Ma non mi si deve attribuire niente di più. Io non ho fatto niente se non prendere atto di una situazione che temo fosse frutto di una cosa di estrema banalità, ovvero una semplice antipatia personale».

 

Un bel clima non c’è che dire. «Beh, se ci pensa viviamo in un periodo in cui un ministro può far fermare un treno. A dire il vero adesso ho paura di viaggiare, ché metti che salgo sul vagone con Lollobrigida mica lo so dove arrivo. Però, parlando seriamente, oggi il clima è questo e se c’è qualcuno che dice “lui via”, lui lo mandano via davvero, e fine. Basta un attimo». Quindi una cosa del tutto personale che si è riflessa sul servizio pubblico, che appartiene a tutti. «Io facevo la mia tv tranquillo e beato e pensavo che sarebbe potuta andare avanti così. Invece era diventata intollerabile, perché non c’è sempre bisogno di gridare per essere evidentemente antagonisti. La Rai è sempre stata una somma di cose diverse, ma questo è un momento in cui governare non è più amministrare la cosa pubblica ma è diventato comandare». 

 

Un cambiamento che è arrivato quasi all’improvviso, ma che le avrà fatto venire voglia di fare tante cose, immagino. «Allora, io voglio fare il morto in un film ma nessuno mi prende sul serio, l’ho chiesto anche a Tarantino, ma niente. Per il resto, onestamente ho fatto quasi tutto quello che volevo, sono stato fortunatissimo anche per un cosa meravigliosa come Binario 21 con Liliana Segre che per me vale tutta la carriera. Poi avevo preparato una piccola storia della tv per i 70 anni della Rai, ma gli eventi come sappiamo sono andati in modo diverso». Lo sa che l’hanno affidata a Carlo Conti la serata? «No, non lo sapevo, vabbè, io faccio sempre il tifo per la Rai perché è anche mia ma è anche sua, dobbiamo augurarci che regga. In fondo è come la Chiesa, ha una storia millenaria, è un tale patrimonio di memoria e di possibilità che sarebbe un peccato non sfruttare. Anche se fino a che non riuscirà a raggiungere un’autonomia dalla politica non c’è niente da fare».

 

Fabio Fazio e Liliana Segre

 

Alla fine si torna sempre sulla memoria. «Ma lo sa che è vero? Molto di quello che ho fatto gira intorno a questo. “Anima mia” per la prima volta restituiva il valore al passato che apparteneva a ognuno di noi. Anche “Quelli che il calcio”, in assoluto il mio programma preferito, era la memoria della radiolina e delle domeniche pomeriggio con l’autoradio “nella mano destra e un canarino sopra la finestra”». 

 

E poi c’è stato “Rischiatutto”, due anni di lavoro maniacale con cui ho praticamente ricostruito un ricordo». Bello, e romantico. Ma già che ci siamo, caro Fazio, lei come vorrebbe essere ricordato? «Io? Ma per carità, mica ho inventato la penicillina». Poi ci pensa un po’ e dice: «Mah, se qualcuno dirà che ho portato un po’ di buonumore sono contento, ma non sono così presuntuoso. No, dai, nessun ricordo, e giuro nessun libro di memoria. Tanto per fortuna non mi ricordo niente».