L’intervento
Il Pd ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare sull’immigrazione
L’accordo con la Libia, il non aver sostenuto la riforma degli accordi di Dublino, il mancato appoggio allo “Ius soli”. Una politica imbarazzante di cui ora può approfittare Giorgia Meloni
Giorgia Meloni ha ricevuto quel dono su un piatto d’argento, e si è ben guardata dal respingerlo. È così che si è tacitamente rinnovato per altri tre anni l’accordo siglato con la Libia dall’allora premier Paolo Gentiloni, il 2 febbraio 2017. Navi, addestramento, tecnologie alla guardia costiera libica in cambio di un lavoro sporco: ricacciare indietro uomini, donne e bambini che tentano di imbarcarsi nel Mediterraneo.
È il sigillo più imbarazzante della politica fallimentare condotta dal Partito Democratico nel settore dell’immigrazione. Il 2017 è stato l’annus horribilis, aperto dal memorandum con la Libia e chiuso quando, il 23 dicembre, il Pd fece mancare al Senato il numero legale per la riforma della cittadinanza a favore di oltre 900 mila ragazzi nati nel nostro paese (o giunti da piccoli) e figli di immigrati regolari lungo soggiornanti. Qui i democratici conservano da trent’anni un imbarazzante scheletro nell’armadio. Perché l’allora Pds diede il suo voto favorevole alla legge n.91 del 1992 tuttora in vigore, secondo la quale un bimbo straniero nato nella nostra penisola deve trascorrervi 18 anni ininterrotti prima, non ancora di potersi dire italiano, ma di fare domanda per diventarlo. Norme che per durezza non hanno eguali nei paesi europei con i quali ci confrontiamo.
Ma non basta. Il 16 di novembre, sempre di quel 2017, il governo guidato dal Pd assisteva distratto all’approvazione, da parte del Parlamento Europeo, di una riforma totalmente favorevole all’Italia del cosiddetto “Regolamento di Dublino”, che impone al primo paese dove i migranti sbarcano di farsi carico di tutte le richieste di asilo. Con le nuove regole vi sarebbe stata invece una redistribuzione delle domande in base ai legami personali del richiedente asilo, alla popolazione e al Pil di ciascun paese. Bisognava cogliere la palla al balzo, intestarsi questa prima vittoria e spingere verso il traguardo finale, e cioè il voto vincolante del Consiglio dell’Unione Europea.
Nulla di tutto questo venne fatto e la riforma si arenò. Da allora a oggi la battaglia del Pd sull’immigrazione si è limitata ad un pigro e ripetuto slogan: “Bisogna eliminare la legge Bossi Fini”. Progetto oltretutto irrealistico, viste le forze in campo. Occorreva invece concentrare gli sforzi su singoli punti, per sperimentare, ad esempio, un “permesso di soggiorno per ricerca di lavoro”, della durata di un anno, in cambio di precise garanzie finanziarie rese dall’immigrato.
Il Testo unico sull’immigrazione impone infatti che si varchino i nostri confini con il contratto già in tasca. Circostanza irrealistica, perché nessuno mai ti assumerà senza averti prima visto all’opera. Ed è così che si alimentano impieghi irregolari e successive sanatorie. Ma per questa soluzione, far incontrare domanda e offerta di lavoro alla luce del sole, il Pd in tutti questi anni non ha saputo battersi, avallando per giunta, nei governi che ha guidato con Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, “decreti flussi” non superiori ai 30 mila ingressi l’anno, dedicati in gran parte al lavoro stagionale e assai poco a quello subordinato, di cui imprese e famiglie, nell’Italia dell’invecchiamento e del crollo demografico, avvertono un acuto bisogno. Urge un rapido ravvedimento. Di più, un cambio di pelle.