Accorgercene ci darebbe conferma di una spaventosa disuguaglianza fra noi e loro. Siamo, nella maggior parte dei casi, così inclini alla fiducia che capita molto spesso di delegare loro battaglie e rivendicazioni che riguardano la società intera, illudendoci che arriveranno dove noi non riusciamo

Margaret Thrushwood è una donna d’animo buono, e ha un amante pessimo che le stermina la famiglia e accusa lei della strage. Dunque, Margaret viene linciata dai suoi concittadini, ma dopo la morte si ritrova all’inferno. Già, perché nel racconto Hitler painted roses, lo scrittore Harlan Ellison immagina che dannazione o salvezza si debbano non alle nostre azioni, bensì alla nostra reputazione. Attenzione: non si parla del nostro presente, ma del nostro presente visto dal passato, perché il racconto è del 1978. Solo che, come spesso avviene a chi scrive di fantascienza, Ellison intravede in anticipo cosa diventeremo.

 

La questione della reputazione pone un’infinità di problemi: intanto li pone alla politica, che ormai da anni si rapporta con l’elettorato allo stesso modo degli e delle influencer. Vi amo, sento il vostro sostegno, siete bellissimi, anche quando piovono inchieste giornalistiche e giudiziarie. Non contano i fatti, conta la reputazione, e conta la finta vicinanza. Finta, questo è il punto. Perché infine abbiamo finito col credere che i video su Instagram o su TikTok siano rivolti proprio a noi, uno per uno, e che chi tira baci dal tondino delle storie li lanci proprio a noi e che noi, insomma, non siamo semplici follower o elettori, ma affini ai lanciatori di baci. È una bugia clamorosa: anzi, è una pazzesca illusione. In quel bellissimo film di Louis Leterrier sull’illusionismo, Now you see me, uno dei maghi attira così il suo pubblico: «Avvicinatevi. Più vicini. Perché più pensate di vedere, più sarà facile ingannarvi».

 

È esattamente quello che ci è accaduto: crediamo all’autenticità di questa o quell'influencer e non vogliamo vedere il suo potere, perché vederne il potere ci darebbe conferma di una spaventosa disuguaglianza fra noi e loro. Siamo, nella maggior parte dei casi, così inclini alla fiducia che capita molto spesso di delegare loro battaglie e rivendicazioni che riguardano la società intera, illudendoci che la voce dell'influencer arriverà dove noi non riusciamo.

 

Un paio di anni fa, se ricordate, Fedez presentò il concerto del 1° maggio. Disse cose sacrosante contro l’omofobia, e certamente fu importante, importantissimo, perché da quel palco raggiunse un gran numero di persone (anche se inferiore a quello che raggiunge abitualmente sui social) che della questione, probabilmente, si disinteressava. Eppure la sensazione che ricevetti all’epoca fu di straniamento: un po’ come se avessi ascoltato Gianni Agnelli, ai tempi, mentre intonava la Canzone del maggio durante un’intervista televisiva, o un pubblico intervento. Perché l’attivismo, come scrisse allora Irene Graziosi, un tempo collettivo, nei social diventa appannaggio dei singoli, si declina sul sé. Diventa, ecco, un brand: e noi, da attivisti, ci trasformiamo in consumatori, e ci consegniamo mani e piedi a quello che nei fatti è un nuovo, e forte, potere economico.

 

Per questo, la cosa preziosa di oggi è Il femminismo non è un brand di Jennifer Guerra, appena uscito per Einaudi: dove si pongono moltissime domande su attivismo e capitalismo, su lotte reali e astuzie commerciali, e sul mito della Girlboss. È un libro acuto ma anche pieno di speranza, che invita infine a non ancorarsi al moralismo: perché, scrive Guerra, «il femminismo è una festa. È il contrario della solitudine». Ed è, aggiungo, tutto il contrario del sé.

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