L’ANNIVERSARIO
Altro che scuola del merito: la rivoluzione di don Milani è una guida nei nostri giorni scomposti
L’istruzione pensata per i ceti popolari. La lotta alle ingiustizie. Il libro “Lettera a una professoressa”. L’ostilità della Chiesa nei suoi confronti. A cento anni dalla nascita, la visionaria lezione del priore di Barbiana
Ci sono persone delle quali è obbligatorio tornare spesso ad occuparsi nel sospetto che le nuove generazioni ne abbiano un’idea vaga o distorta. Tra queste un posto d’onore è occupato da Don Lorenzo Milani, dalla sua Scuola di Barbiana e da un libro straordinario, quella “Lettera a una professoressa” che nel lontano 1967 ha costretto la scuola italiana a riflettere sulle sue mancanze e, piaccia o no, ha nutrito la ribellione verso l’istruzione classista che di lì a poco avrebbe animato la contestazione studentesca.
Quando in questi mesi abbiamo sentito invocare il merito come pilastro di una scuola che deve mandare avanti “i migliori”, quando il merito è stato aggiunto persino nella dicitura del nuovo ministero dell’Istruzione, ignorando volutamente che l’abbandono scolastico in Italia è tra i più alti d’Europa, forse a qualcuno sarà tornata in mente una delle frasi più celebri di quel prezioso libretto: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali».
Erano altri tempi, è vero, sono passati 56 anni da quando Don Milani contrapponeva la formazione scolastica dei figli di operai e contadini a quella dei figli dei padroni, eppure mai come adesso, con le disuguaglianze crescenti e con una popolazione scolastica composta per quasi il 30 per cento da figli di immigrati, l’insegnamento di quel grande prete visionario dovrebbe far da guida ai nostri giorni scomposti.
Se in qualche misura questo potrà avvenire, sarà grazie al centenario della sua nascita che i cattolici di sinistra si preparano a celebrare con molte iniziative a partire proprio da Barbiana, che non è un paese e nemmeno un villaggio, ma una piccola e isolata parrocchia di montagna, con poche case sparse nel bosco e nei campi circostanti.
Don Milani vi arrivò nell’autunno del 1954, ufficialmente trasferito, ma di fatto esiliato per non aver rispettato le direttive vaticane di votare e far votare Democrazia Cristiana alle elezioni politiche del 1953. In quel luogo senza strade, acqua, luce e scuola, il giovane parroco cominciò proprio dalla scuola, dove raccolse i figli dei contadini e dei pastori che erano andati poco o per niente alle elementari e alle medie o ne erano stati cacciati, restando privi di qualsiasi strumento per costruirsi una vita migliore di quella dei genitori.
Fu una scuola dura, a tempo pieno in senso stretto, mattina e pomeriggio compresa la domenica, senza spazi di riposo e senza ricreazione. Il lavoro era collettivo, ogni giorno si leggeva da cima a fondo un quotidiano e si scriveva insieme un commento agli episodi di attualità. Ogni settimana arrivava un politico, un sindacalista, uno scrittore che parlava ai ragazzi e i primi a porre domande dovevano essere quelli più indietro negli studi.
In questo modo don Milani accompagnava i suoi alunni alla conoscenza e al dominio delle parole, e quindi alla possibilità di emanciparsi perché «se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre servo». Quando erano pronti, i ragazzi, tutti fra i 12 e 16 anni, sostenevano gli esami nella scuola pubblica e proprio la bocciatura ritenuta ingiusta di due di loro stimolò la “lettera” indirizzata alla professoressa che li aveva respinti. Se le riflessioni acute, le accuse anche violente, l’anelito alla giustizia sociale e la voglia di riscatto intriso di religiosità che vi si leggono siano state suggerite, o addirittura scritte, dallo stesso don Milani (come è stato spesso insinuato) è questione non essenziale, visto il rapporto di simbiosi tra maestro e alunni che regnava a Barbiana. Quello che si sa è che la stesura del libro fu ultimata al suo capezzale con i ragazzi che gli portavano i brani da discutere mentre lui si spogliava anche della firma per «non morire signore», come riteneva capitasse agli autori di libri.
Signore però Lorenzo Milani lo era per estrazione ed educazione. La famiglia, ricca, colta e cosmopolita, mescolava diverse entità etniche e religiose europee. Il nonno paterno era un archeologo di fama, il padre un professore universitario, mentre la madre, ebrea di origine boema, era cugina di Edoardo Weiss, pioniere della psicoanalisi italiana, e allieva di James Joyce che frequentava la casa e le insegnava l’inglese. Cresciuto in questo ambiente, il giovane Lorenzo dà presto segnali di ribellione: a quindici anni chiede, tra lo stupore della famiglia, di ricevere la prima comunione, dopo il liceo si rifiuta di andare all’università e studia pittura a Brera conducendo una vita bohémien, a vent’anni si converte inaspettatamente al cattolicesimo ed entra in seminario.
A differenza di quanto si può pensare, Don Milani restò però obbediente alla Chiesa e non ne mise mai in discussione i precetti, ma furono le gerarchie ecclesiastiche a non capirlo e a non amarlo. Nel 1958 il suo libro “Esperienze pastorali” che conteneva proposte di radicale cambiamento della Chiesa, fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio. Non si diede per vinto e le sue battaglie pubbliche contenevano sempre un messaggio di rinnovamento, come la lettera aperta indirizzata a un gruppo di cappellani militari che avevano definito l’obiezione di coscienza estranea al comandamento cristiano dell’amore. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Ma aveva fatto in tempo a far sapere ai giovani «che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni».
Intanto piaceva a intellettuali di mezzo mondo, laici e spesso atei, come Erich Fromm e Pier Paolo Pasolini, che scoprivano in lui un aspetto affascinante del sacerdozio. A proposito di “Lettera a una professoressa”, Pasolini scriveva: «Mi son trovato immerso in uno dei più bei libri che io abbia letto in questi ultimi anni: un libro straordinario, anche per ragioni letterarie».
Il priore di Barbiana morì a 44 anni nel 1967 per un linfoma che lo straziava da anni lasciando questo messaggi ai suoi alunni e al mondo: «Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».