Il governo discute il rinnovo dell’intesa con Pechino, criticata dagli Usa. Mentre sono sempre più difficili i rapporti con Bruxelles per via delle difficoltà nell’attuazione del Pnrr. E in caso di nuovi passi falsi, sui mercati potrebbe ripartire la speculazione contro l’Italia

Ja’ a famo o non Ja’ a famo» per dirla con un Corrado Guzzanti d’archivio che imitava Gianfranco Funari e recitava il mantra romano che è tipico pure del governo di Giorgia Meloni. Tra «Ja’ a famo» e «non Ja’ a famo» non passa la decorativa opposizione parlamentare né la rappattumata alleanza di centrodestra, ma l’Europa, il mercato, il debito. Lì si annidano i pericoli per la presidente del Consiglio e da lì attingono i bardi di corte nell’evocare complotti e speculazioni.

 

All’inizio dell’autunno scorso, quando il centrodestra conquistò il governo, i mercati erano popolati di Cassandre che davano per certa una recessione nel primo semestre del 2023. A quasi otto mesi di distanza, la realtà dei fatti ha sgombrato il campo da quelle nubi minacciose. Dopo il rallentamento di fine 2022 (meno 0,1 per cento da ottobre a dicembre), nel primo trimestre del 2023 il Pil ha subito ripreso a crescere. L’aumento ha toccato lo 0,5 per cento, molto meglio di Francia (più 0,2 per cento) e Germania, ferma a quota zero.

 

I confronti internazionali, quelli su base trimestrale, lasciano il tempo che trovano. Il dato del Pil, però, torna utile fin da subito alla retorica di governo sul Paese in ripresa. In prospettiva, la crescita ritrovata, e in misura superiore a ogni aspettativa, promette di avere un effetto benefico anche sul fronte dei conti pubblici. Qui l’esecutivo è costretto a giocare in difesa, perché il debito riduce gli spazi di manovra in bilancio. E così le riforme promesse in campagna elettorale, dalla sanità al fisco alle pensioni, vengono ridimensionate o rinviate a data da destinarsi. Anche il taglio del cuneo fiscale appena annunciato è una misura a termine che vale fino alla fine dell’anno. Per estenderla al 2024 servono 9 miliardi di euro che vanno trovati nella prossima manovra.

 

La prudenza, quindi, è una scelta obbligata. Perché ogni minimo scarto dalla traiettoria di graduale contenimento del deficit finisce per mandare in fibrillazione i mercati e quindi lo spread. Infatti, il Documento di economia e finanza (Def), presentato dal governo il mese scorso, prevede per quest’anno un incremento tendenziale del Pil non superiore allo 0,9 per cento. Un obiettivo che sembra facilmente raggiungibile alla luce del dato trimestrale, più 0,5 per cento, appena reso noto. Questo significa che se il Paese correrà più veloce, l’esecutivo potrà allargare i cordoni della Borsa senza timore di scardinare l’impalcatura dei conti pubblici. È questione di aritmetica. Il rapporto tra indebitamento e Pil è destinato a calare se il denominatore, cioè il Pil, aumenta in misura superiore al debito.

 

Nel frattempo, però, i Btp restano in balia degli umori del mercato. E non può essere altrimenti per un Paese che nel 2023 deve rimborsare 249 miliardi di titoli a medio e lungo termine, con un aumento di 23 miliardi rispetto al 2022, come segnala la Banca d’Italia. Basta un minimo incidente di percorso per mettere in moto la speculazione. A fine gennaio, Giorgia Meloni misurava l’apprezzamento dei mercati per i suoi primi 100 giorni di governo con il calo dello spread da 236 a 175 punti. Da allora, tra alti e bassi, la situazione non è cambiata molto: l’indice oscilla tra quota 180 e 190. Nessuna impennata, ma non si vedono neppure progressi sostanziali. Nell’arco di 12 mesi gli investitori internazionali hanno già scaricato oltre 70 miliardi di titoli pubblici che sono stati in buona parte riassorbiti dai sottoscrittori italiani. Un successo, per Roma, ma ripeterlo non sarà facile se Meloni, tra ritardi nel Pnrr e scontri con Bruxelles, dovesse perdere la fiducia dei mercati.

 

È proprio dal rapporto con l’Europa che possono arrivare le maggiori insidie per il futuro del governo. Il senatore leghista Claudio Borghi lo ha spiegato di recente a modo suo introducendo il ciclico e, a questo punto, ozioso dibattito sul Meccanismo Europeo di Stabilità, meglio noto con l’acronimo di Mes. «Sto spiegando alla mia mano cosa gli succede se mai gli venisse voglia di votarlo», ha scritto Borghi su twitter pubblicando l’immagine della punta di un coltello in pressione sul dorso della mano.

Il Mes fu istituto con un trattato intergovernativo una decina di anni fa per finanziare i Paesi membri dell’Unione in caso di gravi difficoltà di bilancio. Nient’altro che un prestito a condizioni stringenti, quindi. Questo meccanismo è stato però ampiamente superato dalla riforma al testo originario. Per effetto di questa riforma, il Mes, con i suoi 704,5 miliardi di euro di capitale (versati solo 80,5 miliardi), contribuirebbe anche a contenere i rischi di contagio connessi con eventuali crisi bancarie di rilievo sistemico. Da mesi l’Europa osserva con stizza l’Italia perché tiene il Mes in ostaggio senza la ratifica parlamentare, l’ultima che manca su 19. D’altra parte, però, come la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha detto al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, «il Mes è un problema “italo-italiano”, vi state incartando». Il messaggio è chiaro: il Mes non può diventare oggetto di scambio per ottenere trattamenti migliori su altre questioni in discussione tra Roma e Bruxelles, a cominciare dal Pnrr. E allora è probabile che alla fine il governo Meloni, allestita la narrazione più confortevole per sedare ribellioni in Fdi e in Lega, possa votare il nullaosta al Mes. Ma finché il passo italiano non sarà formalmente richiesto da qualche altro partner europeo, non c’è motivo di sbrigarsi. Insomma, alla fine, il Mes non interessa a nessuno.

 

A Bruxelles, piuttosto, sono concentrati sul Pnrr per alcuni buoni motivi. Il primo è che se fallisse questo esperimento, diventerebbe impossibile proporlo ancora in futuro. Il secondo è che il Pnrr è l’estremo tentativo di risollevare il Pil italiano riducendo così il mostruoso debito pubblico. Infine, è evidente se il Pnrr diventasse un’occasione sprecata, l’Italia sarebbe travolta dalla speculazione.

 

In Europa hanno registrato evoluzioni positive nel governo Meloni, ma siamo ancora in un periodo di transizione. I risultati concreti di Roma saranno misurati a partire da dicembre/gennaio quando l’Italia dovrà cominciare a spendere a ritmo serrato (45 miliardi all’anno) i 191,5 miliardi di fondi Pnrr, composti da 69 miliardi di donazioni e 122,5 miliardi di prestiti a tassi calmierati. Il ministro Raffaele Fitto (Affari Europei) ha avocato a sé la gestione del Pnrr e il trasloco, in parte dal Tesoro, ha provocato ritardi. Adesso però in Europa si aspettano le proposte di revisione del Piano. Nel frattempo, il ripensamento sugli stadi di Firenze e Venezia, che originariamente erano da riammodernare con i soldi del Pnrr ,è stato utile per trasmettere a Bruxelles il messaggio che la parte prevalente dei fondi, quella dei prestiti, sarà usata soltanto per appalti e opere che garantiscano un ritorno di crescita.

 

In futuro, non subito, è anche possibile che il governo rinunci all’intero ammontare del Pnrr. Anche in quel caso sarà fondamentale saggiare la reazione dell’Unione e dei mercati. Dentro l’Unione, il rapporto altalenante con i tedeschi e soprattutto con i francesi sarà più teso con l’approssimarsi delle elezioni europee di maggio 2024. Fuori dall’Unione, il governo Meloni è appiattato sul tradizionale schema atlantico e dunque è “follower” delle strategie americane in Ucraina. L’argomento che, però, alza il livello di ansia nel governo è la relazione con la Cina e in particolare il memorandum d’intesa per la Nuova Via della Seta che fu firmato dal governo gialloverde di Giuseppe Conte durante la visita di Xi Jiping in Italia. Il memorandum non ha apportato benefici all’economia italiana nel triennio 2019-22: le esportazioni sono avanzate solo da 13 a 16,4 miliardi, mentre le importazioni si sono impennate da 31,7 a 57,5 miliardi. Il patto scade a marzo del 2024 e, se l’Italia non si esprime, verrà automaticamente rinnovato per un altro quinquennio. Ovviamente questo sarebbe mal tollerato dagli Stati Uniti. Il ministro Antonio Tajani ha già rassicurato in proposito il segretario di Stato, Antony Blinken. L’eventuale mancato rinnovo sarebbe però accolto come uno sgarbo da Xi Jinping e le aziende tricolori che lavorano in Cina ne pagherebbero le conseguenze. La soluzione italiana, al momento, secondo quanto risulta all’Espresso, è parecchio italiana: non decidere nulla, quindi non annunciare né il rinnovo né la risoluzione, oppure posticipare la scadenza, scontando i due anni di pandemia. L’incertezza impedisce a Meloni di pianificare il previsto viaggio in Cina e comunque da Washington già assistono un po’ turbati. Come irritare entrambi.