cultura
Processo ai genitori: ansiosi, inadeguati, iper protettivi. E incapaci di decifrare l’adolescenza
Sono stressati. Incapaci di trasmettere ai ragazzi il valore dell’impegno. E pronti a giustificarli sempre. Dietro teenager aggressivi a scuola o chiusi nelle loro bolle virtuali ci sono spesso adulti che non riescono ad aiutarli a crescere
L’età “protratta”, quella che tanto si fatica a lasciare ma di cui poco, o non abbastanza, si parla. L’adolescenza, questa sconosciuta: di volta in volta vessillo o ricettacolo di definizioni stigmatizzanti e che è facile scivolino in una genericità che sfiora il banale. Durante la pandemia si è trattato di adolescenze vissute al chiuso della propria camera e della famiglia, ciascuno immerso in una sua bolla virtuale spesso, nella lunga durata, opprimente come una prigione. Ora, finita l’emergenza, come quella adulta anche la socialità degli adolescenti riprende. Ricomincia, trasformata come trasformati siamo tutti, sincopata, per quanto meno solitaria e meno ostaggio di solipsismo da “sindrome hikikomori” di quanto qui e là venga teorizzato.
Riguardo ai rapporti famigliari, forse la lunga incubazione data dalla vita domestica coatta ha mutato gli scambi tra gli adolescenti e i loro genitori adulti, rendendo quei rapporti più stretti o invece più difficili e afasici di quanto non fosse già? Che questa protratta “endogamia obbligata” abbia ridotto lo iato anagrafico, livellato distanze generazionali rendendoci in qualche maniera tutti in casa più simili, sin troppo vicini?
«Sarebbe miope non riconoscere che la pandemia abbia segnato un periodo molto particolare, ma è stato d’altra parte evento che ha estremizzato e reso più evidenti dinamiche che esistevano già, tutte, all’interno dei nuclei famigliari» dice Maurizio Andolfi, per molti anni Direttore dell’Accademia di Psicoterapia di Roma e da tempo residente in Australia dove il Governo gli ha conferito l’onorificenza di Distinguished Talent. Senza enfasi, ma categorico, guarda con scandalo all’eccessivo, apprensivo proteggere i figli adolescenti da parte dei genitori italiani.
«Il guaio è incominciato con l’invenzione diabolica del “genitore amico” e prosegue con un’abnegazione fuori misura nei confronti dei figli. A forza di fare tutto per loro, si finisce per bloccarli». Come sempre avviene con i troppi sacrifici, forme di rinuncia ricattatorie che nella lunga durata inibiscono e tarpano le ali, le abnegazioni sono facciate compensatorie di altri vuoti. Forte della lucidità di chi l’Italia ha scelto di seguirla da lontano, con alle spalle una consolidata esperienza di terapia famigliare e dell’adolescenza, Andolfi vede il problema, più che in un livellamento tra le generazioni, in un modello adulto fallace in partenza perché labile dal punto di vista della stabilità emotiva.
«Quelli che più mi appaiono vittime di un forte disagio psicologico sono gli adulti. In preda a un disorientamento generale e a un’ansia galoppante, non sono capaci di trasmettere ai più giovani il valore dell’impegno, inteso come sforzo, certe volte rinuncia, certe altre, attesa fatta di vuoti», mi dice via zoom. «La nozione di vuoto manca ormai del tutto, e questo anche evidenzia su scala globale una condizione di salute mentale compromessa. Le esistenze sono velocizzate, convulse, per causa della troppa attività virtuale certamente, e perché a mancare sono fatica e noia. Due elementi fondanti, e che vanno insieme. Fatica come sforzo, impegno, sacrificio positivo (in vista di un fine), noia come vuoto, inattività, vacuum dove manchi la costante connessione Internet a far credere di essere occupati. Si aggiunge la caduta verticale della lettura, un’attività in totale dissintonia con il presente per come, oltre a rallentare il ritmo del tempo, vuole uno sforzo della fantasia così da immaginare, figurarsi storie e persone, all’opposto di quest’epoca in cui tutto si vede e si vuole visibile, a portata di clic».
Abnegati e sin troppo assidui nel seguire le vite dei figli, a loro volta in una condizione di totale dipendenza da Internet e dalla “visibilità”, i genitori poco hanno da offrire in termini di riferimenti morali. Sono sponde friabili, la cui autorevolezza frana di fronte allo tsunami della metamorfosi dei tempi. «Senza dubbio esiste una difficoltà, dei genitori per primi» ribadisce Antonello D’Elia, psichiatra, «nel gestire e far coesistere insieme norma e soavità. Il registro della tenerezza ha sostituito il conflitto, a cominciare dalle figure dei “mammi” e continuando con quelle dei “genitori amici”. Una sostituzione che certo si riverbera sugli adolescenti: rendendoli sì capaci di soprusi e violenze verso i loro coetanei, come il fenomeno del bullismo dimostra, ma anche timorosi del conflitto inteso come aggressività reale».
Conflitto in casa, conflitto fuori. «Se il confronto con gli altri», nota ancora D’Elia, «trova come principale veicolo l’autorappresentazione (virtuale) di sé, allora viene ad alterarsi quella tensione, fondamentale nell’adolescenza, tra vedere sé stessi (e capirsi) ed essere visti (capiti) dagli altri». La dinamica di scontro con i genitori, faticosa quanto decisiva nell’auto-individuazione durante l’adolescenza, trova nella virtualità una cristallizzazione inibitoria. Per non dire di quanto genitori iperconnessi offrano un modello di costante distrazione che neppure stimola un confronto che sia davvero animato, dinamico, se pure nelle sue distruttività, costruttivo.
Alice Urciolo, con il regista Ludovico Bessegato co-autrice di “Prisma”, fortunata serie televisiva ispirata all’opera di Giovanna Cristina Vivinetto (alla raccolta “Dolore minimo, autobiografia in versi di una transizione sessuale”, Premio Viareggio Opera Prima 2019) ribadisce la stessa inadeguatezza degli adulti di fronte alle tematiche più urgenti per i loro figli. Quello della transizione sessuale è argomento chiave dato il tema di una fedeltà e appartenenza a sé stessi che implicitamente contiene. Una volta di più, tuttavia, tema che va a scontrarsi con le letture deformanti operate dagli adulti, refrattari a considerare l’adolescenza per quel che è. Adulti inadeguati nel decifrare questa età ibrida, in cui ibridi sono anche gli eventuali percorsi per trovare sé stessi e “dirsi” al mondo.
In “Prisma” il tema della transizione sessuale viene accostato a quello della disabilità fisica (uno dei personaggi protagonisti ha una protesi alla gamba), una dimensione “defettuale” che tanto è piaciuta agli spettatori adolescenti perché offre loro una possibile rivendicazione identitaria in risposta a eccessi di adultizzazione o infantilizzazione della loro età. Considerati o troppo maturi o troppo bambini, ragazze e ragazzi mai, o quasi mai, si sentono considerati e visti per quello che sono. Rivendicare un’identità è sancire un’appartenenza, e di appartenenza gli adolescenti molto sentono la mancanza, dice Andolfi. Appartenenza che vuol dire bagaglio di vedute, valori, etica, risorse interiori spesso tramandate dai nonni meglio che dai genitori (a proposito di nonni, D’Elia indica tra le ragioni di un buon radicamento durante l’adolescenza il grado di rapporto che i genitori a loro volta intrattengono con le loro proprie radici). Appartenenza che lascia partire e andar via, lontano dalla “cuccia” della famiglia; appartenenza che rende cittadini del mondo, sicuri di sé altrove, anche molto distante da casa. Un’appropriazione di sé che è l’opposto della separazione ma anche della dipendenza, perché rende liberi. Mentre tante, troppe volte gli adolescenti restano invece impigliati in dinamiche famigliari interne: “braccio armato” delle famiglie (ancora Andolfi), ovvero paladini di un genitore o l’altro in separazioni violente o caotiche, quasi sempre disfunzionali. Figlie e figli di adulti stressati e infelici.
Adolescenza, questa sconosciuta. Un’età che ci accompagna, “protratta”. Tanto si parla di “bambino interiore”, ma sarebbe il caso di cominciare a dire qualcosa anche dell’ “adolescente interiore”. Guardandolo, dialogando con lui: chissà che facendolo i genitori riescano a trovare misura e andatura un po’ più adulte.