Riforme
Ecco perché il sistema giustizia non funziona più
Tempi lunghissimi. Troppi processi per il fallimento dei riti alternativi e per la moltiplicazione delle ipotesi di reato. E la maggioranza dei magistrati irreprensibili tollera in silenzio i colleghi scorretti
Il Pnrr parte dal presupposto che il sistema giudiziario sostiene il funzionamento dell’intera economia e che la sua efficienza è condizione indispensabile per lo sviluppo e per il corretto funzionamento del mercato. Le risorse quindi non servono solo all’attuazione dei diritti costituzionali, visto che il miglioramento del sistema potrebbe portare benefici fino al 2,5% del Pil e aumenti dell’attrazione degli investimenti fino a 200 miliardi di euro. Eppure siamo all’undicesimo posto in Europa per spesa pro-capite nel sistema-giustizia in rapporto alla popolazione, che rappresenta il 60% di quella tedesca, il 67 % della inglese e il 75% della olandese.
Peraltro il Covid ha fatto aumentare l’arretrato e quindi gli investimenti, specie in tecnologie digitali, sono decisivi per le performance. In particolare il processo telematico va immediatamente potenziato, sempre nel rispetto dei canoni del contraddittorio e dei diritti delle parti, specie in materia penale. Si pensi in particolare alle funzioni di segreteria e di cancelleria dove molto si è fatto ma ancora molto di più c’è da fare ed al tema della “calcolabilità giuridica” ovvero della capacità predittiva sugli esiti delle controversie. L’incertezza delle decisioni, infatti, è il terreno di conflitto storicamente più difficile, assieme al fattore tempo.
Quest’ultimo non può essere valutato solo come necessità di durata ragionevole, cosa che peraltro è imposta dall’art. 111 della Costituzione, ma è anche l’elemento che determina le decisioni di investimento e scandisce la vita delle persone. La prevedibilità temporale di una decisione permette all’interessato di compiere scelte razionali e di avere un sacrosanto progetto di vita o aziendale; è essenziale poter prevedere un inizio e una fine e fare affidamento sul rispetto di un minimo di prevedibilità e di certezza dei rapporti giuridici. Certezza che è un valore immanente a tutte le Costituzioni democratiche, storicamente nate appunto come protezione garantista contro gli atti arbitrari e imprevedibili.
Orbene, se da un lato abbiamo assistito al lungo trend di riduzione dei tempi della giustizia civile nell’ultimo decennio, discorso diverso vale per la giustizia penale. Quando stavo per laurearmi nel 1989, entrò in vigore il nuovo codice Vassalli di procedura, in cui la grande innovazione fu il passaggio dal processo inquisitorio (in cui la formazione della prova avviene nella fase delle indagini) a quello accusatorio (in cui accusa e difesa formano la prova in contraddittorio nel corso del dibattimento, sotto la guida del giudice). Possiamo tranquillamente dire che l’operazione è fallita.
Oggi abbiamo una fase delle indagini sbilanciata a favore dell’accusa e quella del dibattimento sbilanciata a favore della difesa, col risultato che si tende, da parte dell’imputato, a trascurare la prima con la sostanziale rinuncia alle indagini difensive e ad aspettare la seconda; con il conseguente disastro che spesso riguarda le misure cautelari, che, anche mediaticamente, si sostituiscono di fatto alle sentenze. Peraltro il codice era legato al funzionamento dei riti alternativi che avrebbero dovuto portare alla definizione rapida del 90% dei procedimenti. Lo stesso valeva per la funzione filtro che avrebbe dovuto assumere l’udienza preliminare, per evitare di portare a giudizio gli esiti di indagini destinate a essere smentite da un lungo dibattimento. Nessuna delle due cose si è verificata. Quanto poi alla sorte infausta del patteggiamento, basta considerare che nell’esperienza anglosassone, ove la regolamentazione è più flessibile e il potere discrezionale del pm più ampio, solo il 10% dei processi viene celebrato.
La verità è che non si può continuare così. Come la vicenda di Tangentopoli ha dimostrato, se le ipotesi di reato sono troppe, il sistema della giustizia penale, molto semplicemente, non può farsene carico. A posteriori, non potrà che notarsi come i Tribunali definirono solo sparuti episodi, lasciando gli altri insabbiati dalla prescrizione, o più semplicemente dal dimenticatoio. Guardando a quel passato i pochi condannati appaiono oggi capri espiatori, vittime di una sorta di vendetta collettiva. Inquadrata in quest’ottica specifica, la politica criminale, intesa come approccio basato sulla osservazione funzionale della norma al fine di renderla efficiente in quel dato contesto, può avere un notevole influsso sul sistema di prevenzione. Com’è noto, l’impiego dello strumento penale dovrebbe essere limitato ai casi in cui non sono disponibili forme di tutela alternative, attesi gli elevatissimi costi del processo. La prevenzione in particolare è un investimento per il futuro con connessioni a tutti i problemi della prognosi e della valutazione dei risultati.
Un’ultima considerazione meritano i protagonisti principali del sistema (assieme agli avvocati) ossia i giudici. Sulla base di una esperienza ultratrentennale, parlare di magistratura in senso lato, come si è spesso fatto, specie in senso dispregiativo, configura un chiaro errore di metodo. Di magistratura in senso lato, almeno per quanto ci riguarda, possiamo parlare solo in positivo, in quanto si tratta di uno dei corpi dello Stato, nel generale decadimento, che meglio si è preservato. Viceversa di un numero ridottissimo di magistrati, che rappresentano un enorme problema per le istituzioni democratiche, si può e si deve assolutamente parlare. E se proprio dobbiamo usare l’espressione magistratura in senso lato l’unica dura critica che le va fatta è l’inerzia e la tolleranza nei confronti dei Pochi che minano ogni giorno il buon nome dei Tanti.
Si obietterà che ciò dipende dalle correnti che proteggono i propri, dalle Procure generali che non vigilano e non agiscono in sede disciplinare per corporativismo e dai rappresentanti al Csm che hanno una gestione delle vicende da politicanti, come i casi degli ultimi anni dimostrano. Tutto vero, ma a monte c’è appunto quel 99 per cento di magistrati irreprensibili, che tuttavia consentono colpevolmente che ciò avvenga, voltando le spalle perché non vogliono scocciature. In diritto si parla di “culpa in vigilando”...e non è poco!