La Russia e Minsk spingono migliaia di rifugiati verso la frontiera con l'Unione europea. E a decine muoiono nel tentativo di entrare. E il premier polacco Morawiecki ha blindato l’accesso agitando lo spettro della sostituzione etnica

Un uomo riverso, disteso nell’erba nei pressi di un torrente, coperto da strati di vestiti su tutto il corpo tranne che sulla pancia gonfia è il 45° morto accertato tra i migranti nella foresta di Bialowieza, al confine tra Bielorussia e Polonia. Seduta intorno al tavolo a mangiare zuppa di fagioli come gli altri, Karola osserva la foto dallo schermo di uno smartphone. Lo passa in silenzio e così lo vediamo tutti. Nel pomeriggio su Internet viene pubblicata la fotografia di un sentiero con vestiti e scarpe abbandonate ma senza corpi. «Non possiamo, non è giusto», dice Karola mentre prepara lo zaino da portare nei boschi. A notte fonda quello stesso zaino, pieno di termos con altra zuppa e tè caldo, indumenti, sacchi a pelo e medicinali, sarà sulle spalle di chi si avventura nell’oscurità della foresta alla ricerca di uomini e donne in fuga disperata.

 

Karola è soprannominata Kalashnikov, è abbastanza alta, ha i capelli rasati a zero, pantaloni larghi e braccia finissime sotto la maglietta lunga. Indossa perennemente un cappellino. Il suo look un po’ anarchico un po’ da bullo anni ’90 è tradito dall’espressione troppo dolce e dalla mancanza totale di animosità. Parla molto lentamente con un tono di voce basso e soporifero difficile da seguire per chi non la conosce. Ma nel folto nero della foresta si trasforma in una pantera silenziosa. Cammina spedita evitando gli ostacoli e non controlla quasi mai la mappa nonostante la luna sia coperta e la notte sia nera come la pece. È in testa al gruppo, e per un secondo viene da chiedersi dove sia finita la ragazza flemmatica di prima. Non impone alcuna autorità eppure sei portato naturalmente a seguirla perché nei suoi gesti non si coglie il minimo dubbio. 

 

Con i migranti è attenta, si dà da fare in fretta: distribuisce cibo e bevande calde, cura le ferite lievi e raccoglie informazioni. A un certo punto si volta e mi guarda: «Puoi fumare ora se vuoi», si ferma, «te lo dico perché anche io volevo» e ride. Durante il tragitto qualsiasi luce è pericolosa, si rischia di venire individuati dai droni di sorveglianza della polizia e di mettere a repentaglio i migranti che sono già in una situazione tremenda. Farshad, ad esempio, un ragazzone di 21 anni siriano, trema senza sosta. È caduto in un ruscello mentre scappava con il suo gruppo, ora ha tutti i vestiti bagnati e la temperatura di notte già sfiora lo zero. Non riesce ad allungare il braccio per prendere la zuppa e, quando la afferra, dal cucchiaio gli cadono in continuazione pezzi di legumi come se avesse il morbo di Parkinson. Mohammed, anche lui siriano, sta provando a passare per la quarta volta e giura che stavolta «qualsiasi cosa succeda» non si farà respingere. «Mi hanno detto che mi ammazzeranno se mi rivedono», racconta riferendosi ai poliziotti bielorussi. Il più giovane, un ragazzino somalo di 16 anni è l’unico africano del gruppo. Ha degli ematomi sul volto e sulle tempie. 

 

«Chi te li ha fatti?», chiediamo, il rischio che nei gruppi in fuga si creino dinamiche da branco e che il più giovane o chi appartiene a etnie diverse sia maltrattato è reale. Ma non sembra questo il caso. «Sono inciampato mentre scappavo, la polizia ci aveva avvistato», risponde l’adolescente. In tutto sono 9 persone, tra cui un anziano, in mezzo a un intrico di rovi e alberi spezzati con i vestiti bagnati per aver passato il fiume, le caviglie gonfie, le ginocchia doloranti, i segni sulla schiena e i tagli di chi cammina ininterrottamente da 5 giorni, da 10 giorni, anche da settimane. Chiedo all’anziano se posso riprenderlo. «Perché?», risponde in francese. «Per documentare». Ci riflette. «Meglio di no, la polizia può farmi molto male se lo vede». Suo figlio, che mi indica con un gesto della fronte, è il più irrequieto del gruppo, «si vede che non è mai stato respinto», dirà ridendo uno degli attivisti il giorno dopo. «La polizia vi ha seguito?», chiede, quasi ad alta voce. «Sssshh», gli dicono in coro tutti. «Ah, ok», dice lui. «Ma la polizia è vicina o no?». Continua a ripetere «Ah, ok», qualsiasi cosa gli diciamo. «Grazie…grazie…siete brave persone», dice prima di salutarci, «ma la polizia? E il fiume lì è alto?». Il giorno dopo vengo a sapere che i ragazzi sono stati visti di nuovo: dei 9 originari ne sono rimasti 4, padre e figlio separati, ma hanno preso il padre. Pochi minuti, richiudiamo gli zaini e partiamo dietro Karola che riprende a camminare svelta e silenziosa, non si ferma mai non accende la luce e non parla se non ce n’è assolutamente bisogno.

 

 

Stando a ciò che raccontano i migranti, i trafficanti chiedono tra i 5 e gli 8 mila dollari per il biglietto d’aereo verso Minsk o Mosca e per il passaggio in macchina fino al confine bielorusso. Chi non li ha tutti va come può, anche a piedi. Una volta riusciti a passare la frontiera, c’è qualcuno chi li aspetta con un taxi o una macchina ad almeno 15 chilometri di distanza, che i migranti devono compiere nei boschi. Il rischio evidente è che non ci sia nessuno o che il conducente sia stato arrestato. Secondo alcuni, chi paga di più ha anche dei passaggi privilegiati in alcuni punti del muro. Circolano storie di checkpoint che spariscono magicamente per pochi minuti, di cancelli che si aprono all’improvviso o di guardie che prendono direttamente soldi. Ma sono storie non verificabili.

 

Le guardie di frontiera non sono tutte cowboy con il culto della razza ariana. Ci sono anche agenti anziani che ogni tanto di nascosto distribuiscono acqua o permettono agli attivisti di far passare qualcosa, soprattutto quando ci sono anche donne e bambini, lo raccontano i migranti stessi. Ma sono casi rari, la maggior parte delle guardie si dividono in due categorie: le reclute e gli anziani. Questi ultimi sono quelli che hanno fatto della difesa dei confini la propria missione. Ragionarci è impossibile. Gli altri sono ragazzini freschi di arruolamento che per dimostrarsi all’altezza si comportano da intransigenti e si sforzano di trasmettere più disprezzo possibile da sopra gli scaldacollo verde scuro che coprono il volto fino agli occhi.

 

Durante le ore del giorno il confine tra Polonia e Bielorussia appare come una zona tranquilla: una verde frontiera di boschi di pini stretti e alti, talmente fitti da impedire la vista a pochi metri. Paesini di campagna dall’aspetto anonimo, a tratti qualche piccolo agglomerato di casette di legno decorate (molte delle quali affittate ai turisti) e di nuovo macchie estese di verde che resiste rigoglioso anche al caldo estivo. In ogni fosso e avvallamento uno specchio d’acqua: torrenti, fiumi, paludi, polle e laghetti. Per questo fino al 2021 la regione di Bialowieza era una delle mete predilette di polacchi e nordeuropei che pianificavano qui le loro escursioni in bici a piedi o in canoa tra le centinaia di percorsi persi nei boschi. Da due anni, invece, è il luogo dal quale centinaia di migranti, soprattutto mediorientali, tentano di entrare nel territorio polacco per poi proseguire verso l’Europa occidentale. Fin da subito la Polonia ha accusato la Bielorussia di «mossa premeditata volta a destabilizzare il Paese» e ha provato a bloccare questo flusso umano con il filo spinato e le forze di polizia. «All’inizio era più sorvegliato, perché non c’era il muro», ci spiega Mark, un attivista locale: «Il governo aveva fatto passare delle leggi d’emergenza che rendevano una striscia di territorio di circa 2 km a partire dalla frontiera una zona ad accesso limitato. Dentro quest’area, dove c’erano pattugliamenti costanti, hanno impedito l’accesso agli attivisti, ai giornalisti e a chiunque volesse andare sul posto a vedere cosa stava succedendo o a dare una mano». Poi Putin ha invaso l’Ucraina e l’attenzione si è spostata altrove.

 

Come Viktor Orban in Ungheria, anche Mateusz Morawiecki è riuscito a vincere le elezioni in Polonia evocando il rischio della «sostituzione etnica». Nel luglio 2022 Morawiecki e gli alti funzionari del suo partito, Diritto e Giustizia, hanno inaugurato il “muro” che ora corre per tutti i 186 chilometri che separano la Polonia, e quindi l’Ue e la Nato, dalla Bielorussia, ormai feudo di Mosca. Una linea di grate d’acciaio alte fino a 6 metri che, per la propaganda del governo di Varsavia, avrebbero dovuto fare da argine alla guerra ibrida di Lukashenko. Morawiecki è riuscito anche a far passare il muro al confine con la Bielorussia come uno strumento necessario tanto da costringere quasi tutti i partiti ad adeguarsi. La stessa strategia comunicativa che il premier polacco sta adottando a Bruxelles. Così i migranti sono diventati «l’arma dei regimi di Putin e Lukashenko» e l’Ue, impegnata a sostenere l’Ucraina «fino al raggiungimento di una pace giusta», si volta dall’altra parte per non vedere che all’interno dei propri confini la giustizia è quotidianamente vessata, impedendo a centinaia di persone (che pure secondo le leggi comunitarie ne avrebbero diritto) di chiedere asilo politico.

 

 

In seguito alla provocazione dei mercenari della Wagner, che si ritraevano in marcia verso il confine, Varsavia ha deciso l’invio di ulteriori 10 mila soldati e di nuovi mezzi, rendendo questo confine uno dei più sorvegliati d’Europa e, forse, del mondo. Dall’altro lato, il presidente Lukashenko gioca diverse partite contemporaneamente. Si fa ritrarre sorridente alla cerimonia militare in cui ospita Vladimir Putin, ospita i reparti russi in addestramento e inaugura il nuovo campo base per i mercenari della Wagner, ma continua a dichiararsi «contrario all’intervento in Ucraina», a meno che Kiev non lo obbligherà, si intende. Sui migranti, generalmente, tace. Ma è dal suo Paese che arrivano ed è la sua polizia che (per prima) li terrorizza. «Go west!», andate verso Ovest, intimano. «E non azzardatevi a tornare indietro, altrimenti ve la faremo pagare» raccontano decine di ragazzi nel buio della foresta. Il problema è che anche se riescono ad arrivare a Ovest, nella Polonia democratica ed europea, la situazione non è molto migliore.