La carenza di servizi al Mezzogiorno spinge i cittadini a emigrare per ricevere le cure. Ma questo pesa sui conti regionali e innesca un circolo vizioso di debiti e disservizi

In base all'ultimo report della Fondazione Gimbe, ogni anno un fiume di denaro, ben 4,25 miliardi di euro, scorre dal Sud verso il Nord: sono i soldi spesi dalle Regioni del meridione per pagare le prestazioni sanitarie che i propri cittadini non trovano nelle strutture sanitarie di casa propria e che quindi devono andarsi a cercare fra Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e nel Lazio (unica eccezione alla dinamica Nord-Sud). Detto altrimenti, il Servizio Sanitario Nazionale, inteso come sistema universale di cura, non esiste più: esistono 21 sistemi sanitari differenti, ognuno diverso dagli altri e per nulla altruisti, anzi. 

 

Certamente un fatto grave, ma non nuovissimo. Mentre la novità assoluta è che, non solo si è alzata bandiera bianca rispetto all'universalità del servizio (una sanità uguale per tutti i cittadini), ma i dati Gimbe raccontano anche che è il pubblico ad aver ceduto il passo al privato. Un euro su due speso in ricoveri e prestazioni specialistiche finisce nelle casse del privato: esattamente 1,72 miliardi di euro (il 54,6%) rispetto agli 1,4 miliardi delle strutture pubbliche. In particolare, per i ricoveri ordinari e in day hospital le strutture private hanno incassato 1,42 miliardi, mentre quelle pubbliche 1,13 miliardi. Per le prestazioni di specialistica ambulatoriale in mobilità, il valore erogato dal privato è di 301,3 milioni, quello pubblico di 300,6 milioni. IL problema è che «oltre la metà del valore delle prestazioni di ricovero e specialistica ambulatoriale vengono erogate dal privato accreditato, ulteriore segnale d’indebolimento della sanità pubblica», spiega il presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta, che aggiunge come il superamento del privato sul pubblico sua palese in alcune aree del territorio: «Il volume dell’erogazione di ricoveri e prestazioni specialistiche da parte di strutture private varia notevolmente tra le Regioni ed è un indicatore della presenza e della capacità attrattiva delle strutture private accreditate, oltre che dell’indebolimento di quelle pubbliche». Infatti, accanto a Regioni dove la sanità privata eroga oltre il 60% del valore totale della mobilità attiva – Molise (90,5%), Puglia (73,1%), Lombardia (71,2%) e Lazio (64,1%) – ci sono Regioni dove le strutture private erogano meno del 20% del valore totale della mobilità: Valle D’Aosta (19,1%), Umbria (17,6%), Sardegna (16,4%), Liguria (10%), Provincia autonoma di Bolzano (9,7%) e Basilicata (8,6%).


 

Più in generale, sul fronte della mobilità sanitaria interregionale, nel 2021 ha raggiunto un valore di 4,25 miliardi di euro, in crescita di quasi un miliardo rispetto all'anno precedente, con una specifica tendenza, ovvero una netta mobilità dal Sud verso in Nord: «Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, per altro le regioni capofila dell’autonomia differenziata, attraggono il 93,3% dei pazienti in cerca di una cura fuori dai confini della propria regione. Mentre il 76,9% dei cittadini in cerca di queste cure proviene da Calabria, Campania, Sicilia, Lazio, Puglia e Abruzzo. La mobilità sanitaria è un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche, che riflette le grandi diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e, soprattutto, tra il Nord e il Sud del Paese. Un gap diventato ormai una “frattura strutturale” destinata ad essere aggravata dall’autonomia differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud, amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute».


 

Cartabellotta fa esplicito riferimento al DdL Calderoli che si avvia alla discussione al Senato, fra mille mal di pancia di organizzazioni territoriali, sindaci locali e amministratori che sul fronte sanità, ma non solo, temono che l'introduzione dell'autonomia differenziata possa coincidere con il definitivo de profundis del Servizio Sanitario Nazionale. «Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto potenzieranno le performance di queste Regioni e, al tempo stesso, indeboliranno ulteriormente quelle del Sud, anche quelle a statuto speciale. Un esempio fra tutti: una maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale, rischia di provocare una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose. Le Regioni del Sud non avranno alcun vantaggio: essendo tutte (tranne la Basilicata) in Piano di rientro o addirittura commissariate come Calabria e Molise, non avrebbero nemmeno le condizioni per richiedere maggiori autonomie in sanità. In tal senso risulta ai limiti del grottesco la posizione dei presidenti delle Regioni meridionali governate dal Centro-Destra, favorevoli all’autonomia differenziata. Una posizione autolesionistica che dimostra come gli accordi di coalizione partitica prevalgano sugli interessi della popolazione».