Finora stoccate all’estero, i residui radioattivi dovranno essere ospitati sul territorio nazionale. Dopo anni è stata pubblicata la lista con i 51 Comuni tra cui si dovrà scegliere per costruire il deposito. Ma la momento solo uno si è detto favorevole

Da Novi Ligure a Tarquinia, da Altamura a Trapani, da Alessandria a Calatafimi. Sono cinquantuno siti sparsi in sei regioni – Piemonte, Lazio, Sardegna, Basilicata, Puglia e Sicilia – a giocarsi la “lotteria” che nel giro di un annetto consentirà a uno di questi territori di ospitare il primo deposito italiano delle scorie nucleari, un complesso di quasi centomila metri cubi di materiale radioattivo.

 

La settimana scorsa il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica ha pubblicato sul proprio sito l’elenco delle aree idonee per il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, contenuto nella Carta nazionale delle Aree idonee (Cnai), sfoltendo fino a quota 51 una prima lista di 67 siti. Anche se il nostro Paese non ospita più (o non ancora) alcuna centrale nucleare, un deposito è necessario perché l’Unione europea ha vietato ai singoli Paesi la possibilità di esportare le proprie scorie all’estero, e l’Italia continua a produrne diversi tipi.

 

Ci sono i materiali connessi alla dismissione delle ex centrali nucleari italiane (circa il 60% del totale, finora stoccati in Francia, Belgio e Regno Unito) oltre ai prodotti di scarto derivanti dalla ricerca scientifica, dall’industria e dalla medicina, che anche in futuro continueranno a essere generati. Complessivamente nel nuovo deposito verranno ospitati 78 mila metri cubi di materiale con un livello di radioattività medio-basso, più altri 17 mila di livello medio-alto, entrambi stoccati come matrioske. I primi verranno infatti inglobati in una matrice di cemento e sistemati all’interno di un contenitore, che a sua volta verrà inserito nel calcestruzzo armato e in un ulteriore sarcofago dello stesso materiale, detto “cella”, per garantire la massima impermeabilità della struttura. Le novanta celle previste saranno poi ricoperte di terra, creando una collina artificiale che servirà anche a migliorare l’impatto visivo, e i rifiuti resteranno lì per almeno 300 anni, il tempo necessario a far diminuire il livello di radioattività fino a farla pressoché scomparire. Discorso simile per i 17 mila metri cubi di rifiuti più radioattivi, che – in attesa di uno stoccaggio geologico per lo smaltimento in via definitiva – verranno temporaneamente inseriti in taniche cilindriche di massima sicurezza alte 3 metri (in grado di resistere a esplosioni, incendi, terremoti e inondazioni) gestite dalla Sogin, la società pubblica per lo smantellamento degli impianti nucleari.

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Quella della sede non sarà una scelta casuale, naturalmente: i criteri con cui l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare ha selezionato i territori candidati a ospitare il deposito sono ben 28 e comprendono lontananza da zone vulcaniche, sismiche, di faglia e a rischio dissesto, e da insediamenti civili, industriali e militari. Sono inoltre escluse le aree naturali protette, quelle oltre i 700 metri sul livello del mare, a meno di 5 km dalla costa, con presenza di miniere e pozzi di petrolio o gas, di interesse agricolo, archeologico e storico. Ai candidati è richiesta infine la disponibilità di infrastrutture di trasporto. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, a far sì che in alcuni casi saranno proprio gli enti territoriali o le strutture militari, a presentare le candidature per ospitare il deposito.

 

È il caso di Trino Vercellese, in Piemonte, dove già sorgeva una delle centrali nucleari italiane: il Comune si è fatto avanti per cercare di ottenere gli incentivi statali correlati, ma anche perché la nascita del deposito dovrebbe portare con sé migliaia di posti di lavoro negli anni successivi. Nella sede designata, infine, assieme alla struttura di stoccaggio verrà realizzato un centro di ricerca chiamato a svolgere attività nel campo della dismissione delle centrali nucleari e dello sviluppo sostenibile.

 

Ma al di là delle rassicurazioni sulle modalità di stoccaggio e dei criteri di individuazione, è facile prevedere che le comunità locali non vedranno di buon occhio la possibilità che sul proprio terreno venga costruito un deposito di rifiuti radioattivi. A essere interessate sono la provincia di Alessandria (nei Comuni di Bosco Marengo, Novi Ligure, Alessandria, Oviglio, Quargnento, Castelnuovo Bormida, Sezzadio, Fubine Monferrato), il Viterbese (nei Comuni di Montalto di Castro, Canino, Cellere, Ischia di Castro, Soriano nel Cimino, Vasanello, Vignanello, Corchiano, Gallese, Tarquinia, Tuscania, Arlena di Castro, Piansano, Tessennano), le province di Oristano e quella di Sud Sardegna (Albagiara, Assolo, Usellus, Mandas, Siurgius Donigala, Segariu, Villamar, Setzu, Tuili, Turri, Ussaramanna, Nurri, Ortacesus, Guasila), la provincia di Matera (Montalbano Jonico, Matera, Bernalda, Montescaglioso, Irsina) e i Comuni di Altamura, Laterza e Gravina, con una appendice nel Potentino, a Genzano di Lucania. Infine il Trapanese, con due aree idonee a Calatafimi, Segesta e Trapani. Non a caso, nessuno di essi ha finora risposto in maniera positiva dando la propria disponibilità. La sindrome “Nimby” (Not In My BackYard), insomma, potrebbe portare a un duro braccio di ferro tra amministratori e comitati locali.