Un’opera ambiziosa, nata con l’intento di superare le forme della rappresentazione tradizionale. È il "Prometeo" di Luigi Nono. Il filosofo riflette sulla sua attualità e ricostruisce i rapporti con il compositore

Un progetto concepito a lungo, in un arco di quasi un decennio. Un’opera ambiziosa, nata con l’intento di superare le forme della rappresentazione tradizionale, legate alla narrazione e alla visione. E per la cui realizzazione, il compositore Luigi Nono (con il supporto della Biennale di Venezia) coinvolse alcuni tra i più importanti artisti del tempo: il direttore d’orchestra Claudio Abbado, l’architetto Renzo Piano, il pittore Emilio Vedova. E il filosofo Massimo Cacciari, all’epoca quarantenne professore associato di filosofia allo Iuav di Venezia e, dopo gli anni in Potere Operaio, nome di punta del Pci, appena conclusa l’esperienza da parlamentare. È dal dialogo tra i due che prende forma l’idea di un’opera radicale: per questo così capace di parlare ancora oggi. E proprio sull’attualità del “Prometeo” Massimo Cacciari rifletterà il 29 gennaio a Venezia, in una tavola rotonda insieme al direttore Marco Angius e a Lucia Ronchetti, direttrice della Biennale Musica. Come anticipa a L’Espresso. 

 

Come nacque la collaborazione con Luigi Nono?
«La nostra è stata una lunga amicizia, con frequentazioni pressoché giornaliere, letture in comune ed esperienze condivise, culturali e politiche. Dopo “Al gran sole carico d’amore”, che andò in scena nel 1975, Nono si mise a lavorare all’idea di una nuova opera. Nel frattempo aveva composto vari pezzi per i quali io avevo elaborato dei testi, che potevano risultare funzionali alla partitura, come “Das Atmende Klarsein”, “Io, frammento dal Prometeo”, “Diario polacco”, “Guai ai gelidi mostri”. I miei testi servivano essenzialmente a Nono come tracce ispiratrici, poi le parole erano totalmente risolte nel fatto musicale, come nel Prometeo».

 

Cosa rappresenta la figura di Prometeo nell’opera?
«Io ho messo insieme un collage di testi che esprimono un’idea propria del “Prometeo”, mia e di Nono. L’abbiamo chiamato Prometeo ma non ha nulla a che fare con nessuna delle figure tipiche del Prometeo, nessuna delle varianti che si sono succedute nel tempo. Questo mito che corre lungo tutta la nostra civiltà viene svolto in una chiave completamente diversa: non si tratta del ribelle di Goethe, né del contestatore, né tantomeno del Prometeo della civiltà tecnico-meccanica. Nella nostra idea Prometeo è una figura ispirata ad alcuni passi delle Tesi di filosofia della storia di Benjamin, quella di un angelo della storia, che ripercorre la storia cercando di salvarne gli sconfitti, di salvarne le rovine. E la vicenda si svolge attraverso varie isole nelle quali emerge questa figura anti-prometeica del Prometeo. Un Prometeo che sta nella dimensione dell'ascolto, o al limite del silenzio».

 

L’intento dell'opera è proprio quello di ricondurci all'ascolto, dimensione che la nostra civiltà ha perso.
«Il tema dell’ascolto è un problema ovviamente anche di carattere filosofico. Ma per Nono si trattava di un aspetto che viveva drammaticamente nella sua esperienza compositiva, e cioè l’idea che nel contemporaneo proprio questa dimensione così essenziale per la musica fosse entrata in una crisi radicale. E questo perché l’avvento di una certa civiltà dell'immagine, malamente intesa, ha comportato il venir meno del primato e della fondamentalità dell’ascolto. Nel Deuteronomio, nell’Antico Testamento, Dio non si vede ma si ascolta, e lo si ascolta anche in un fruscìo, lo si trova anche in un silenzio. E quest’idea è al centro di almeno tutti gli ultimi quindici anni di composizioni di Nono. E per questo il Prometeo volle intitolarlo Tragedia dell'ascolto, perché quello che Prometeo chiede è di essere ascoltato. Ma non in forma gridata, enfatica, retorica: è facile ascoltare uno che ti grida nelle orecchie, sei costretto. No, l'ascolto è tale se si giunge ad ascoltare lo stesso silenzio».

 

Qual era il senso di un’opera come il Prometeo quarant’anni fa?
«Quest’opera è stata varie volte eseguita, ascoltata, apprezzata. E questo malgrado tutte le enormi difficoltà anche tecniche che comporta una partitura del genere e la sua esecuzione, fino agli spazi e agli ambienti che sarebbero necessari per il suo corretto ascolto. Se si dedica la cura e l'attenzione necessarie, queste sono opere che durano e che non sono relegabili a momenti storici determinati. Al di là di questo, è chiaro che il “Prometeo” nasce da un mondo che è completamente lontano dal nostro. Un mondo in cui in cui vi era una cooperazione, un lavoro comune, che durava anni. Basti pensare alla collaborazione tra Nono e i suoi musicisti, come Abbado, come Pollini. Al lavoro di Nono con il laboratorio di Friburgo, dove si sperimentava con la musica elettronica. O alla stessa collaborazione con me. Che coinvolgeva anche tutta una dimensione politica: “Prometeo” nasce anche dall’esperienza maturata da Luigi Nono nel laboratorio di musica viva, quando Pollini eseguiva Schoenberg per gli operai di Reggio Emilia. Il lavoro allora era amicizia, assoluta dedizione all’opera, oltre ogni interesse. Pensi a Renzo Piano, che realizzò gratis tutta la grande costruzione per la prima del “Prometeo”. Quello era il clima di quegli anni. Ma è un mondo del tutto scomparso. Fa addirittura ridere pensare che possa ritornare qualcosa di simile al giorno d’oggi».

 

Ma quest’opera riesce ancora a dire qualcosa al nostro tempo?
«Certo, il “Prometeo” comunica se ti metti in ascolto, con pazienza, con voglia di studiarlo, perché come tutte le grandi opere si tratta di lavori difficili, che richiedono un ascolto intelligente. Allora sì, può ancora comunicare. Ma oggi ognuno fa quello che vuole, per conto suo, al di là di ogni contesto politico, sociale, organizzativo, sorpassando ogni dimensione comunitaria. È quella dimensione disinteressata, culturale, politica, dentro cui Nono ha sempre vissuto, anche nei suoi momenti di massimo silenzio, che è completamente scomparsa».