L'eloquio involuto della segreteria del Pd può essere respingente, ma non riduciamo il confronto a battute da avanspettacolo. Bisogna alzare l'asticella del pensiero e della lingua

Leggendo le discussioni sul linguaggio di Elly Schlein mi è tornato in mente un vecchio libro di David Sedaris, che in Me parlare bello un giorno raccontava di come la lingua, per lui, fosse un ostacolo gigantesco. Schlein, come avete letto nello scorso numero, viene accusata di parlare troppo in astratto, e non da oggi: lo ha fatto lo scorso settembre Lilli Gruber («Ma chi la capisce se lei parla così?»), torna a farlo più di recente Stefano Disegni, in un fumetto dove mette a confronto Schlein e Chiara Valerio, con un interprete che ne traduce il dialogo e una Meloni che arriva, alla fine, per invitarle a usare il linguaggio degli elettori.

 

Questione non lineare, però. Intanto, bisognerebbe rileggere un saggio di Gabriele Pedullà, Parole al potere, dove si analizzano i discorsi dei politici tra il 1861 e il 1994 e si ricorda che i primi passi della Repubblica italiana sono caratterizzati da una voluta semplicità per distaccarsi dagli artifici retorici del fascismo, e che ben presto quel desiderio di trasparenza e vicinanza con il popolo lascia il passo al cosiddetto politichese, per non perdere elettori con prese di posizione troppo nette. Pier Paolo Pasolini, fra tutti, denunciò la voluta oscurità del linguaggio di Aldo Moro e poi la sua trasformazione in gergo tecnocrate nel 1964, dopo il discorso per l’inaugurazione dell’Autostrada del Sole. Via il lessico umanista, forza con le parole del Progresso.

 

Poi, però, arriva il Bagaglino che negli anni Ottanta e Novanta contrae ogni discorso in battuta da avanspettacolo, dalla Lega che ce l’ha come sapete in poi. Poi sono venuti i social, e il linguaggio si è contratto ulteriormente assumendo i toni e la brevità dei tweet e dei post. Alla luce di tutto questo, si chiede dunque alla leader dell’opposizione di adeguarsi: la stessa cosa che, non ovunque, si chiede agli scrittori per venire incontro alla diminuita capacità di comprensione di chi li leggerà, perché, insomma, è tempo di farla facile.

 

Forse, allora, bisognerebbe chiedersi invece se questo processo vada sempre e comunque sostenuto: volendo guardare al passato – cosa che non si dovrebbe fare, lo so – il procedimento era, a grandi linee, l’esatto contrario, e si provava comunque ad alzare la famigerata asticella, magari un passo alla volta. Facciamo un esempio: mi è capitato di rivedere, in tempi non lontani, su YouTube, Allacciate le cinture di sicurezza (1987) di Solenghi-Marchesini-Lopez. Era uno spettacolo popolare ma coltissimo. Perché per ridere (e si rideva tanto) bisognava: sapere che all’inizio il Trio fa il verso a Ronconi (Anna Marchesini è una Marisa Fabbri impeccabile), che proseguendo è una parodia esilarante non solo del Giardino dei ciliegi, ma del modo in cui Giorgio Strehler lo mise in scena. Conoscere il vaudeville. Conoscere il gotico. Avere, insomma, centinaia di riferimenti culturali. Si chiamava, appunto, alzare l’asticella, senza forzature.

 

Questo non significa, ovviamente, che bisogna tornare al politichese, ma che bisogna porsi il problema di come si fa a salvare capra e cavoli, e pazienza se il riferimento riporta alle metafore contadine usate non troppo tempo fa da Pier Luigi Bersani. Dunque, la cosa preziosa di oggi non può che essere 1984 di George Orwell, con tutto quel che una Neolingua, impoverita anno dopo anno, comporta.