Le ragioni della proposta sul premierato spiegate da chi l’ha scritta: «Modificare la Costituzione è tutt’altro che un tabù. Per 21 volte si è intervenuti sulla nostra Carta»

Il dibattito che ha accompagnato l’approvazione della proposta di revisione costituzionale sull’elezione diretta del presidente del Consiglio ha confermato, se mai ve ne fosse bisogno, che si tratta di un tema fortemente divisivo e di grande rilevanza politica. Il pericolo, in tali situazioni, è che si formino posizioni preconcette che finiscono per viziare il confronto, sia nelle istituzioni che nella società civile, ricorrendo a luoghi comuni che talvolta non hanno riscontro nella realtà. Vi è, ad esempio, la diffusa convinzione che le riforme costituzionali, in particolare quelle sulla forma di governo, sono tanto necessarie quanto politicamente pericolose. Basti pensare che, diversamente da qualsiasi altra legge, sono molto più noti gli insuccessi che le riforme approvate.

 

È ricorrente nel dibattito il ricordo del costo politico pagato da Renzi per la sua proposta di riforma; ma altrettanto noti sono gli insuccessi della commissione Bozzi, del comitato Speroni, della bicamerale D’Alema e della riforma costituzionale di Berlusconi, approvata nel 2005 dalle Camere e bocciata nel referendum del 2006. Se però si riflette sui numeri, ci si accorge che modificare la Costituzione è tutt’altro che un tabù: dall’entrata in vigore della Costituzione sono state approvate 44 leggi costituzionali e per ben 21 volte ad essere modificato è stato proprio il testo della nostra Carta costituzionale. Il numero delle parole aggiunte o modificate successivamente al 1948 è superiore a quelle contenute nel testo originario; solo nell’ultima legislatura sono state approvate tre leggi di revisione costituzionale; alcune revisioni hanno avuto notevole impatto istituzionale: come la riduzione del numero dei parlamentari o la modifica del Titolo V (sull’assetto degli enti territoriali).

 

 La sottovalutazione delle modifiche introdotte e la frequente denigrazione delle proposte di revisione nascono dall’idea, che pure ha un suo fondamento, che la nostra Costituzione sia la più bella del mondo. Ciò, tuttavia, non dovrebbe indurre ad un atteggiamento aprioristicamente conservativo, a guardare con sospetto qualsiasi proposta di modifica o a celebrare gli eventuali insuccessi.

 

Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Giorgia Meloni

 

Un secondo vizio prospettico delle riforme istituzionali riguarda la straordinaria distanza che intercorre, nel confronto politico, tra l’individuazione del problema e la possibile soluzione. È, infatti, chiaro a tutti e condiviso trasversalmente che la nostra forma di governo presenta fattori patologici che hanno prodotto una crescente crisi della partecipazione democratica e una notevole instabilità dei governi. Con una significativa differenza: che mentre il tasso di astensionismo alle elezioni è un dato crescente in tutte le democrazie occidentali, l’instabilità dei governi italiani rappresenta un unicum a livello mondiale. 68 governi in 75 anni e una durata media di poco più di un anno sono numeri che non hanno pari nel resto del mondo e che si riflettono sull’affidabilità del Paese, sul livello di attrattività degli investimenti e sulla capacità di incidenza dell’Italia in ambito sovranazionale.

 

Del tutto fisiologico è che le soluzioni in astratto prospettabili siano molteplici e rispondano ad approcci differenti: vi è chi prospetta modelli sperimentati in altri ordinamenti statali (come il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o il cancellierato) che richiederebbero un intervento di modifica radicale della nostra Costituzione; chi ritiene sufficiente intervenire solo sulla legge elettorale; chi, infine – ed è la proposta del governo – si ispira all’esperienza regionale per provare a realizzare l’obiettivo incidendo il meno possibile sul testo costituzionale. Al di là di quale sia la soluzione preferibile, ciò che sorprende è che rispetto ad un problema di tale rilevanza e universalmente condiviso, non si riscontri da oltre cinquant’anni un approccio costruttivo che possa portare, similmente a quanto accaduto nella Costituente, ad una sintesi e ad una mediazione tra le diverse ipotesi sul tavolo. Sembra, invece, prevalere, in questa occasione come in tutte le precedenti, una logica contingente, legata alle dinamiche tipiche dello scontro tra maggioranza di governo e opposizione.

 

Questa sensazione sembra trovare conferma in una delle principali critiche mosse alla proposta del governo sul cosiddetto premierato: l’indebolimento del ruolo e dei poteri del presidente della Repubblica. Una critica che non solo non trova alcun fondamento testuale, rimanendo sostanzialmente inalterati nel disegno di legge i poteri presidenziali, ma che paradossalmente è avanzata proprio da chi propone il sistema tedesco, cioè una forma di governo che indebolisce significativamente il ruolo del capo dello Stato. Senza considerare che, come ebbe a rilevare, ormai 50 anni fa, Mortati, uno dei più illustri costituzionalisti del ’900, l’elezione popolare del primo ministro può marcare la differenza di legittimazione con il capo dello Stato, rafforzandone il ruolo di garanzia e di controllo.

 

L’auspicio, insomma, è che ora nel dibattito parlamentare prevalga la consapevolezza che il Paese ha urgente necessità di una riforma che assicuri maggiore stabilità ai governi e che vi sia la lungimiranza, che hanno avuto i Padri Costituenti, di privilegiare logiche di lungo periodo rispetto a valutazioni indotte da episodici calcoli elettorali.

 

Francesco Saverio Marini è Costituzionalista e consigliere giuridico della presidente del Consiglio