Candidato antipopulista e riluttante, in Liguria corre contro la destra trumpiana di Marco Bucci. Ma ha degli avversariancora più complicati: l’indifferenza, il sonno e la disillusione

Sulla scheda ha otto contendenti, deve battere la destra, ma in realtà ha un solo vero nemico, il più difficile: l’indifferenza, il sonno, la disillusione. A cinque mesi dallo scoperchiarsi del sistema Toti per via giudiziaria, a un mese dal patteggiamento dell’ex (bi)presidente della Liguria, nove anni dopo la disfatta di Raffaella Paita che nel maggio 2015 segnò l’inizio della fine del regno di Matteo Renzi, Andrea Orlando – candidato antipopulista e riluttante, 55 anni, quattro volte ministro, sinistra Pd, ultimo figlio o meglio nipote del Pci che fu – ha tra le mani il compito più delicato dell’intera stagione. Dimostrare con il voto in Liguria del 27 e del 28 ottobre che il centrosinistra può vincere sul grigiore sguaiato della destra fin qui al comando, nonostante l’evanescenza del campo largo. Qui, proprio mentre si chiudevano faticosamente le liste, è arrivato da Giuseppe Conte il veto sui candidati di Italia viva, seguito poco dopo da altri distinguo. Polemiche che Orlando platealmente ignora, come fa Elly Schlein a Roma: «Il 10 per cento dei cittadini liguri non riesce a curarsi e gli altri faticano a farlo, ecco la vera priorità: tagliare le liste d’attesa, il 20 per cento in un anno, assumere, riaprire dove si può. Cose concrete. Le alleanze sono una questione interna non interessano a nessuno». Orlando, che fa campagne elettorali da quando aveva 7 anni (la prima risale al 1976), lo dice alle otto e mezza del mattino, tra la tappa a Dervi Marina e quella a Sestri Levante, mentre aspetta il treno, in ritardo, nella stazione di Moneglia, 2.800 anime, insieme con sette turisti tedeschi e due coppie di anziani, per il successivo incontro previsto in agenda. Tutto molto emblematico: il ritardo, il quasi deserto e persino l’altoparlante che spiega l’attesa prolungata del regionale con «lavori in corso a Roma Termini che potranno determinare ritardi e cancellazioni».

Vista dai binari spersi tra le gallerie a ridosso del mare e il cielo livido dell’estate finita, in effetti, Roma è lontanissima, un grande punto interrogativo di ambizioni inutili. L’Italia sembra invece racchiusa qui, in questa Liguria che si prepara al voto prima del tempo. Per necessità, senza averlo voluto. Indignata. Ma anche sfinita, anziana, senza più le grandi fabbriche, le società di mutuo soccorso, una classe dirigente forte, le fiumane di operai, senza più i grandi luoghi di costruzione della coscienza collettiva, i servizi sociali, ma spesso anche senza i medici di famiglia, il pronto soccorso, un lavoro degno. «In dieci anni la Liguria ha perso 60 mila abitanti, quasi l’equivalente di una città come Savona, nella sanità c’è un buco di oltre 200 milioni. Gli aerei che atterrano da noi sono ridotti a un terzo, il Frejus è chiuso e anche i treni sono peggiorati. Siamo a un bivio, dobbiamo lavorare a una svolta: industria sostenibile, destagionalizzazione del turismo, potenziamento dei servizi, bisogna rompere il circolo vizioso», dice Orlando. Che incontra gli operai e i sindacalisti di Alstrom, Sanac, Piaggio aerospace prima che arrivi il ministro Urso a far promesse, il comitato “Senza pronto soccorso si muore” di Albenga, gli agricoltori danneggiati (in ultimo) dalle alluvioni di settembre, i lavoratori del porto di Lavagna, che il Comune vuol dare in concessione ai privati per cinquant’anni a prezzi stracciati, i cittadini del mercato di Chiavari, quelli della provincia di Savona e anche di Imperia, zoccolo duro bianco e poi scajoliano più difficile da conquistare. Racconta: «Quando ero nella Fgci andavo a fare i comizi con Varese Antoni, che era candidato alla Camera del Pci. Era stato un comandante partigiano, e sindaco di Spezia, andavamo in val di Vara, dove la Dc era al 50-60 per cento. In piazza non c’era nessuno. Allora lui col microfono puntava una finestra e attaccava : “Casalinga democratica che ascolti dietro le persiane”. E faceva tutto il comizio così, rivolgendosi all’immaginaria casalinga. Io no, facevo un comizio normale». In quasi cinquant’anni di campagne, Orlando ha visto di tutto. Stavolta viene contestato quasi niente. Solo una volta gli tirano addosso l’eredità pesante di Claudio Burlando, ex ministro, ex presidente della Regione e per vent’anni padre padrone del Pds-Ds-Pd ligure. Un’altra volta pensano sia disattento perché prende appunti sul telefonino. Nient’altro. Ma non è un buon segno.

Dopo nove anni di centrodestra al potere, la Liguria sembra ridotta in effetti a un parco giochi in disarmo, pronto a essere smontato nell’indifferenza generale, volendo. La ricetta, raccontano tra i banchi del Mercato orientale di Genova, sono stati i tappeti rossi, le sagre, le feste di Capodanno, una specie di Bagaglino condito di grandi promesse. Poi però oltre i lustrini è difficile afferrare. È la stessa sensazione che si ha osservando da vicino Marco Bucci. Sindaco di Genova, rieletto nel 2022, civico meloniano se così si può dire, giurava che non si sarebbe candidato per la Regione, ma era prima del patteggiamento di Toti. La sua campagna elettorale è un singolare su e giù dall’automobile, un salire e scendere scale, uno stringersi le mani con il ceto politico, gli incontri nell’hotel, la cena allo yacht club, oppure la visita nell’azienda agricola di turno, il cui logo è magari ripetutamente inquadrato nella storia Instagram del giorno, tra una tartina e un sorriso. E mentre il candidato di disturbo ex M5S Nicola Morra fa inorridire con un’allusione alle sue condizioni di salute, le uniche persone con cui Bucci scambia sguardi – tolta qualche signora nei mercati – sono quelle raffigurate nelle fotografie dei luoghi chiusi in cui si tengono gli incontri. Gli basteranno? Non è molto importante, in realtà: il consenso è televisivo, mediatico, di stampo berlusconiano, più figlio del distacco che della partecipazione. Perfetto a spiegare quell’indignazione che – crescente da maggio all’estate – si è poi come dissolta al caldo degli ombrelloni d’agosto, dopo le dimissioni di Toti.

La continuità di Bucci con il mondo dell’ex governatore è persino lapalissiana, basta guardare le liste (esempio: il capolista di Orgoglio Liguria è Stefano Anzalone, indagato per voto di scambio nell’inchiesta di Genova). E da vicino il profilo di Bucci è assai diverso dall’immagine di civico responsabile e moderato che si immagina a Roma: bastava vedere, il 4 ottobre, l’assalto verbale a Orlando nel parcheggio dell’Expo di Fontanabuona. «Perché urli?». «Che fai, scappi?». Provocazioni e un gusto da match televisivo degni di una Rete 4. Simili, del resto, sono finora i suoi più forti sostenitori: il sindaco di Terni Stefano Bandecchi, giunto giovedì 3 fino a Sanremo per sostenere Bucci con un comizio al Teatro Centrale, e l’eurodeputato eletto con la Lega Roberto Vannacci, che durante l’incontro a Loano, Ponente ligure, ha avuto la settimana prima l’occasione di ringraziare per il sostegno un militante di CasaPound.

Tutti insieme compongono un profilo preciso del politico contemporaneo di destra, quasi post meloniano: energico, rozzo, pieno di sé, abile a dare l’idea di fare. È la linea Bucci, che infatti promette di riaprire il riapribile, di risolvere qualsiasi problema. Alla Berlusconi, o meglio: alla Trump. «Ho fatto quattro volte il ministro, sono una persona seria: non vado a fare il pagliaccio in campagna elettorale», dice invece Orlando ai comizi, in un passaggio che strappa sempre l’applauso. Il genere è: non vendo sogni ma solide realtà. Basterà?