Magazzini pieni di macchine invendute. Utili in picchiata, titolo in caduta. Il gruppo franco-italiano è in crisi. Per Elkann potrebbe essere il momento buono per abbandonare l’auto

Dall’apoteosi al crollo. La parabola Stellantis si è consumata in fretta. In tre anni il gruppo automobilistico italo-francese, nato dalla fusione della Fca di Agnelli con Peugeot, è passato dai conti record del ’21 alla caduta vertiginosa della semestrale di giugno, con una discesa repentina dei ricavi del 14% e utili dimezzati rispetto a giugno ’23. Eppure solo tre anni fa si era gridato al miracolo: Stellantis batteva nomi blasonati come Volkswagen e la stessa Toyota per redditività operativa. Merito della fusione, si disse, e del capolavoro messo a punto da John Elkann, dominus dell’impero sabaudo che replicava l’altro successo: la conquista di Chrysler portata in dote agli Agnelli dallo scomparso Sergio Marchionne, salvando la Fiat dal fallimento che incombeva a metà degli anni Duemila.

Sembrava un disegno perfetto: solo grandi gruppi possono competere a livello globale nel mercato automotive, competitivo e che richiede grandi investimenti. Anche se aveva voluto dire annacquare il peso della famiglia torinese nel suo storico business. In Stellantis la quota degli Agnelli, pur primi azionisti, è solo del 14,2%. Si disse di una consegna dell’auto italiana ai francesi e di una marginalizzazione dell’Italia nel panorama globale. Ma gli Agnelli sarebbero così sopravvissuti come attori nel business che li ha caratterizzati per oltre un secolo.

Ora però il miracolo sembra svanito. La crisi europea, con tutte le grandi case, Volkswagen in testa, a soffrire cali di vendite e incertezze sempre più profonde sugli investimenti per l’auto elettrica, ha cambiato le carte in tavola anche per Stellantis. In forte crisi è andato il mercato americano, punta di diamante del gruppo che in Nord America faceva quasi la metà del fatturato globale e buona parte della redditività. I rivenditori hanno i magazzini pieni di auto invendute e la quota di mercato è scesa dal 10 all’8%. Mancano all’appello mezzo milione di vetture rispetto agli standard abituali. E sono lontani i tempi in cui il gruppo vendeva quasi 6,5 milioni di veicoli l’anno, come avvenne nel primo anno della fusione. I primi sei mesi di quest’anno hanno chiuso con vendite globali per soli 2,8 milioni di veicoli e per il 2024 gli analisti accreditano un fatturato poco sopra i 160 miliardi, lontano dal record ’23 a 190 miliardi. Ma soprattutto è la marginalità a preoccupare gli osservatori: l’azienda ha comunicato che il margine operativo scenderà tra il 5 e il 7%, tornando ai livelli pre-fusione. Anche la cassa verrà bruciata con il free cash flow che è atteso in territorio negativo tra 5 e 10 miliardi. Il miracolo è svanito in un colpo solo. Figlio, in realtà, più della politica dei prezzi praticata dal ceo Carlos Tavares, anziché dell’aumento delle vendite. Nel ’22 a fronte di vendite in calo del 2%, il forte aumento dei ricavi è arrivato dai prezzi saliti del 18%: l’ad portoghese ha usato la leva del prezzo spinta al massimo e ora subisce il contraccolpo, con i magazzini pieni di invenduto.

In questo quadro l’Italia è sempre più all’angolo. Si va avanti a colpi di cassa integrazione nei vari stabilimenti della Penisola e la produzione arranca. Si rimandano progetti come la gigafactory per le batterie promessa a Termoli e il rapporto con il ministro Adolfo Urso è al calor bianco per i mancati investimenti in Italia e il classico ricatto tra incentivi, rottamazione, in cambio di occupazione. Un report della Fim Cisl certifica l’agonia della produzione: nel terzo trimestre, la produzione di Stellantis è calata oltre il 31% e per l’intero anno la produzione sarà sotto le 500 mila unità, quando solo pochi anni fa si superava il milione di veicoli prodotti. Una fuga sotterranea dall’Italia che dura da molti anni, ancora prima delle nozze con Peugeot. Se l’Italia ormai è fuori dagli schermi, dato che dal nostro Paese arriva poco più del 10% dell’intera produzione globale di Stellantis, ora incombe la grande crisi dell’intero gruppo che rischia di trascinarsi anche nel 2025. E che sgonfia del tutto il miracolo dei primi anni post-nozze.

Il problema a questo punto, secondo molti osservatori, non è il se, ma il come e il quando. E cioè trovare il modo per gli eredi Agnelli di sganciarsi definitivamente dal business auto, impegnativo e rischioso. In fondo perché continuare a investire in un settore che richiede grandi masse critiche e grandi necessità di capitale? In fondo Stellantis ha sempre meno peso nella galassia Exor. La crisi, con la caduta del prezzo in Borsa del 40% da inizio anno e mandando in fumo oltre 40 miliardi di euro di valore, ha fatto emergere che Stellantis vale dentro Exor poco più di 5,4 miliardi su un valore netto dell’attivo della finanziaria di 38 miliardi. Un ridimensionamento mai visto: oggi il gigante dell’auto conta per il 15% della ricchezza degli asset di Exor. La sola Ferrari, che in Borsa viaggia come un treno, vale oltre la metà dell’intero pacchetto di partecipazioni della finanziaria olandese guidata da John Elkann.

Stellantis, vista con i numeri, è una zavorra per il futuro di Exor. Il titolo della finanziaria olandese abituato a correre in Borsa ha subìto la battuta d’arresto di Stellantis. E al destino di Borsa di Exor e alle sue performance sul listino sono legate le stock option da centinaia di milioni appannaggio dell’erede designato da Gianni Agnelli. John Elkann veste meglio i panni dell’astuto investitore che dell’industriale e ha impostato da anni la strategia della cassaforte di famiglia su settori quasi immuni dai cicli economici. Ferrari è un unicum, neanche più un’azienda di auto, ma un brand di lusso che ha un potere di prezzo che pochi possono vantare e immune da qualsiasi ciclo economico. Idem per i marchi del lusso come la scarpa Loboutin che Exor ha in portafoglio. O la sanità con l’istituto francese Merieux, dove Exor ha messo il suo cappello con un investimento da 800 milioni.

Senza contare il peso che dentro Exor stanno avendo gli investimenti finanziari in start-up tecnologiche. Tutti settori che non hanno a che fare con i consumi di massa e soprattutto non necessitano delle maxi-iniezioni di risorse di cui invece l’auto necessita. A Elkann l’industria è servita per generare quella cassa da investire in nuove frontiere ad alta redditività, come l’hi tech, la salute, i brand della moda. E se l’auto tradisce e non produce più cassa, perché tenersela con i grattacapi economico-finanziari e politici che comporta? Lo spunto potrebbe arrivare da una nuova partita di nozze: non è un caso che in questi giorni si sia rispolverato il vecchio progetto di una fusione di Renault con Stellantis che pare assai gradito al presidente francese Emmanuel Macron. In fondo gli osservatori sanno che per vincere la sfida della transizione ecologica e non solo, il mercato dei produttori deve concentrarsi. C’è spazio nel mondo globale dell’auto solo per 5-6 grandi colossi, non di più. Renault-Stellantis diverrebbe il primo gruppo europeo superando Volkswagen, subito dietro Toyota. Certo ci sono problemi di Antitrust soprattutto sulle quote di mercato europee, ma l’idea non è affatto peregrina. E cascherebbe a fagiolo su Exor che potrebbe così diluirsi ulteriormente fino a sparire dal mercato dell’auto di massa.