Con il caso La Russa-Musolino torna sotto i riflettori un fenomeno che ferisce la democrazia

Forse non sapremo mai come sono andate le cose quel giorno, al ristorante di Palazzo Madama. Cioè se Ignazio La Russa ha davvero chiesto alla senatrice Dafne Musolino di mollare l’opposizione per arruolarsi nelle file della maggioranza, come afferma lei, o se l’ha «semplicemente salutata, per non più di 30 secondi», come sostiene l’altro. Ma il semplice fatto che il dubbio stavolta riguardi non un parlamentare qualunque ma il presidente del Senato – e che tutto avvenga mentre il governo Meloni cerca disperatamente gli otto voti mancanti per eleggere un giudice costituzionale – riaccende i riflettori sul fenomeno dei voltagabbana, quei politici che una volta eletti passano da un partito all’altro o addirittura dall’opposizione alla maggioranza, o viceversa.

Perché nei primi due anni di questa legislatura sono già 52 i parlamentari che hanno cambiato casacca durante la corsa, da Aboubakar Soumahoro a Mariastella Gelmini, con un incrocio di spostamenti nel quale figurano tutti i partiti, come punto di partenza o di approdo, anche se la destinazione preferita è il Misto, un limbo comodo e tollerante che è diventato il sesto gruppo più numeroso dell’intero Parlamento.

Certo, il fenomeno sembra in calo, visto che nella scorsa legislatura i cambi di casacca furono 214 e in quella precedente addirittura 348. E oggi non si vede nessuno che possa insidiare il primato del re dei voltagabbana, Sergio De Gregorio, che dopo essersi fatto eleggere senatore con l’Italia dei valori dell’arcigiustizialista Antonio Di Pietro passò dall’altra parte della barricata e il 24 gennaio 2008 votò la sfiducia al governo Prodi, provocandone la clamorosa caduta. Non gratis, però: a convincerlo furono i tre milioni di euro che lui stesso ammise di avere ricevuto da Silvio Berlusconi, patteggiando una condanna a 20 mesi di carcere per corruzione in atti d’ufficio.

Ma cosa spinge un parlamentare, uno che è stato votato da migliaia di cittadini, a cambiare bandiera con tanta facilità? Ideali? Crisi di coscienza? Macché. Chi cambia gruppo spesso lo fa per convenienza, per sopravvivere in quel circo che è diventato il Parlamento italiano.

Il cambio di casacca non è solo un fatto di politica politicante. È un vulnus alla democrazia. Perché quando un parlamentare cambia bandiera, tradisce il patto che ha stretto con gli elettori. La gente vota per un partito, per un programma, per un’idea. E quel voto dovrebbe essere sacro. In Italia, invece, è diventato un passepartout. Chi viene eletto non sente alcun obbligo morale verso chi l’ha mandato in Parlamento. Si sente libero di fare ciò che vuole, di tradire, di saltare da un gruppo all’altro come se fosse una questione personale, non collettiva.

La soluzione, si dirà, è semplice: serve una legge. Una norma che impedisca ai parlamentari di cambiare gruppo una volta eletti. Ci hanno già pensato in tanti, da Berlusconi a Luigi Di Maio. Ma i loro progetti si sono infranti contro l’articolo 67 della Costituzione: ogni membro del Parlamento «esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Un principio posto saggiamente a tutela della libertà di coscienza che è diventato col tempo il lasciapassare dei saltafossi.

Il paradosso è che a essere traditi – oltre agli elettori che li hanno votati, si capisce – sono i partiti che non hanno voluto rinunciare alle liste bloccate illudendosi di aver creato eserciti di lealisti e poi si stupiscono quando vengono abbandonati dagli opportunisti che, ottenuto il seggio, ignorano qualsiasi vincolo di fedeltà.