Il commissario FdI e l’europarlamentare dem, record di preferenze a giugno, sono il volto del sistema Puglia. Che accumula risorse e poltrone. Dalla terra alla gloria. Andata e ritorno

È stato il primo a sinistra a sbracciarsi di entusiasmo, appena dopo la designazione di Raffaele Fitto, quando nel Pd era tutta una gara al mugugno di chi diceva più «ma» e «però» contro il commissario europeo e vicepresidente in pectore. «Fitto è la migliore scelta possibile», proclamava invece lesto Antonio Decaro, via Ansa e via intervista. Con le stesse parole l’ex sindaco di Bari record di preferenze a Bruxelles (oltre 495 mila nel Sud, secondo una vulgata locale in dieci mesi di campagna elettorale «ha fatto accordi pure con le mattonelle») salutava l’ipotesi a fine agosto, quando la nomina di mister Pnrr era soltanto probabile. Esaltando la stima verso il fedelissimo di Giorgia Meloni. 

 

La consuetudine a lavorare assieme sui dossier con «correttezza» e «onestà intellettuale», uno da ministro e l’altro da sindaco e presidente dell’Anci. L’amicizia, financo: anche questa parola è stata pronunciata. Insomma non c’è niente di meglio che mettere a fianco Decaro e Fitto per illustrare l’ecumenicità pugliese, piatto tipico regionale che ora tocca livelli eccezionali di visibilità e di prosperità, Puglia connection in questi anni sempre più vispa, trionfo bipartisan che adesso addirittura sale sull’aereo e sbarca a Bruxelles (un volo diretto al giorno da Bari e da Brindisi, due il martedì mattina, nessuno al sabato).

 

Sono anni che la Puglia scala posizioni nella politica, in trasversalità e visibilità e quindi in potere: la pugliesità foggiana del capo dei Cinquestelle Giuseppe Conte e le serate organizzate per lui dal comunicatore Rocco Casalino nella natia (di Casalino) Ceglie Messapica, molto prima che Giorgia Meloni vi stabilisse il suo regno vacanziero, il pacato subgoverno biscegliese del dem Francesco Boccia, il G7 tutto fanfare e niente sostanza di questo giugno, la masseria su cui non tramonta mai il sole di Bruno Vespa, il potere e il contropotere del leccese Alfredo Mantovano, e tutto questo solo nel decennio del lungo regno alla regione di Michele Emiliano, là dove una volta era tutto Vendola e ancora prima, ormai remoti, i pranzi a Gallipoli tra Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione – per chi se li ricorda (Fitto era già al lavoro, pancia a terra).

 

Insomma il regno dell’inciucio, ma solare, sfacciato, all’aria aperta. Uno stile per il quale basta guardare con quale disinvoltura si compongono certe giunte, assommando la sinistra fino ad arrivare a destra. O anche solo la vicenda incredibile di Pippi Mellone, sindaco di Nardò, vicino a CasaPound ma anche a Emiliano, sostenuto dal centrodestra ma capace di definire la sua città «simbolo dell’accoglienza». Nulla dell’umidità e della penombra che hanno certi riti romani, per dire.

 

Il nuovo orizzonte è adesso europeo. È a Bruxelles che hanno trovato casa due purissimi eredi della pugliesità, Fitto e Decaro. Quasi coetanei, 11 mesi di differenza, entrambi laureati all’università di Bari, entrambi cooptati, entrambi figli della prima Repubblica. Un’attitudine condivisa a essere longitudinali e (quindi) longevi, si ritrovano in Europa con ruoli che si parlano: Fitto, da commissario, avrà la delega alla Coesione, cioè sarà colui che eroga i fondi per il Sud (per gli anni 2021-27 vale 378 miliardi, di cui 43 per l’Italia). Decaro  a Bruxelles è presidente della commissione Ambiente (inizialmente si pensava sarebbe andato a guidare quella per lo Sviluppo regionale: a quel punto la corrispondenza sarebbe stata perfetta) e, soprattutto, è destinato ad essere uno di coloro che i fondi li riceve, essendo in predicato di candidarsi per la Puglia l’anno prossimo, al posto di Emiliano.

 

Molto s’è detto in questi giorni di Fitto: nato a Maglie, il paese di Aldo Moro, figlio d’arte, cioè di Salvatore, presidente della Regione, morto in un incidente stradale quando lui aveva appena 19 anni. È una specie di Andreotti pugliese: nell’anno della Germania unificata era già consigliere regionale per la Dc, a 29 anni entrava al Parlamento europeo, a 30 sedeva sulla poltrona del padre, per poi diventare deputato e ministro (Forza Italia), di nuovo eurodeputato (stava nel Ppe), di nuovo ministro (Fratelli d’Italia). Golden boy, ma sempre rappresentante del vecchio sistema, dell’establishment nelle sue cangianti vesti, un figlio della prima Repubblica. Un surfista doc che, anche nei periodi di magra, dalla sua tana da talpa silenziosa ha continuato a coltivare un intoccabile impero di voti che ha messo a disposizione prima di Berlusconi, poi di Meloni, sempre per sé.

 

Meno s’è detto di Antonio Decaro, anche lui una specie di eterno ragazzo cooptato, anche lui estenuante collettore di accordi incrociati, ma più smart nel comunicare se stesso, al punto che a tratti certi pezzi del Pd sognano (sognavano?) di clonarlo come la pecora Dolly e lanciarlo nello spazio del futuro del centrosinistra. Poco si è detto ad esempio che anche lui è figlio della prima Repubblica. Sicuramente in senso genetico: suo padre Giovanni, macchinista ferroviere, era nel Psi, vicino a Rino Formica, e fu assessore comunale nella Bari degli Anni Ottanta. Ma anche in senso politico: artefice della sua discesa in campo fu un amico del padre, il socialista Alberto Tedesco – poi controverso assessore regionale e senatore del Pd – che nel 2004 lo propose come giovane e tecnico (è ingegnere Anas) assessore dei trasporti a Bari, nella prima giunta guidata da Emiliano. 

 

Ereditata la rete di consenso di Tedesco, Decaro è diventato poi figlioccio di Michele Emiliano stesso, in quel tira e molla fra affetto e soffocamento tipico di certi rapporti familiari, come si è visto benissimo sul palco di marzo, sempre a Bari, quando Emiliano si è messo a raccontare della visita con Decaro alla sorella del boss nel mezzo della bufera per le inchieste che attraversavano il sistema di potere pugliese. Una scena che si è ripetuta tante volte. «Il mio governo non sarà in continuità con quello di Emiliano», proclamava del resto già nel 2014 candidandosi a sindaco di Bari, proprio mentre il suo predecessore andava dicendo ai quattro venti che gli faceva un certo effetto «vedere un mio figlio politico diventare sindaco». Ecco, per certi versi siamo ancora lì, pur giunti al terzo decennio di dominio tra Regione e Comune. Ma del resto, come è evidente dai numeri, nessuno oggi è radicato in Puglia come Decaro, a partire da Bari, tranne forse Fitto, a partire da Lecce-Brindisi. I due delfini adulti delle due filiere, la sinistra post socialista e la destra normale post democristiana, che potrebbero quasi scambiarsi i posti e che sono tra loro in un perfetto equilibrio: il territorio e la gloria europea, ciascuno il suo.

 

D’altra parte già a fine primavera, nonostante le bufere sull’ultima parte del governo di Decaro, l’elezione a sindaco di Bari di Vito Leccese, già capo di gabinetto in città per quasi un ventennio, è andata liscia come l’olio. Nessuna vera minaccia è arrivata dal centrodestra: paradossalmente i problemi sono cominciati un minuto dopo, a elezione avvenuta, tutti interni al centrosinistra, coi Cinquestelle che sono già all’appoggio esterno. Si potrebbe dire, sulla scia di Decaro, che la continuazione della filiera a Bari era «la scelta migliore possibile, viste le condizioni». Come quella di Fitto commissario per l’Italia a Bruxelles. E in fondo questo equilibrio complessivo, estremamente elegante, è un guadagno per tutti: i salvatori della Patria e i salvatori del Sud. Nel nome della Puglia felix.