Si rischia un conflitto globale. Forse perché abbiamo dimenticato l’importanza della pace

L’ultimo numero di una delle più prestigiose pubblicazioni americane di geopolitica, Foreign Affairs, ha un titolo preoccupante: “World of war”, che non ha bisogno di traduzione. A questo è dedicato quasi tutto il volume di novembre/dicembre, a partire dal primo pezzo di Mara Karlin (Johns Hopkins School of Advanced International Studies) intitolato “Il ritorno alla guerra totale”, per poi passare ad altri pezzi dai titoli ugualmente preoccupanti (“Le guerre non accadono per caso”, “Gli agenti del caos della Cina”, eccetera). Sembra ormai che nel dibattito pubblico internazionale prevalga una specie di rassegnazione rispetto alla possibilità di evitare un conflitto di maggiori proporzioni.

Perché si torna a parlare di guerra totale? Ci sono due motivi per pensare che la terza guerra mondiale non sia poi così lontana. Il primo è che la globalizzazione sta sconvolgendo equilibri economici e quindi politici consolidati. A tassi di cambio che riflettono il potere d’acquisto delle valute, e che quindi approssimano meglio i diversi volumi di produzione, il Pil dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) era di 7,9 trilioni di dollari nel 1999, il 38% di quello dei G7 (fonte Fmi). Nel 2024, i Brics sono saliti a 65,7 trilioni, superando il Pil dei G7 del 16%. Difficile che un tale sconvolgimento economico non abbia ripercussioni politico-militari. Per esempio, forse la Russia non avrebbe attaccato l’Ucraina un quarto di secolo fa, sapendo che un eventuale embargo da parte dei G7 non avrebbe potuto essere compensato da un aumento del commercio con i partner Brics.

Il secondo motivo è forse più banale, ma non per questo meno valido. Sono passati quasi ottant’anni dall’ultimo conflitto mondiale. Da allora sono scoppiate numerose guerre locali che sono però rimaste limitate, senza portare a uno scontro diretto tra le maggiori potenze economico-militari. Forse il mondo si è dimenticato di quanto importante sia la pace. E invece di rafforzare gli strumenti di cooperazione internazionale, come l’Onu, ci siamo affidati alla speranza che il timore di un’escalation nucleare fosse sufficiente per prevenire la terza guerra mondiale.

Tutto sommato, c’è da essere preoccupati. In attesa dei risultati delle elezioni americane, che il lettore di questo pezzo ormai conoscerà, nei giorni scorsi a Washington ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Bob Woodward, il giornalista che assieme a Carl Bernstein condusse l’indagine sul “Watergate”, anche questo dal titolo emblematico (“War”). Woodward ha narrato quanto vicino la Russia sia arrivata all’uso di armi nucleari tattiche di fronte al contrattacco ucraino (la dottrina militare russa prevede l’uso di armi nucleari tattiche anche in caso di «perdite catastrofiche sul campo di battaglia»). Se le avesse usate, il tabù che ha frenato il passaggio a una guerra totale, calda, non fredda, nucleare, non convenzionale, sarebbe stato violato con imprevedibili conseguenze.

Tra i miei primi ricordi ci sono le immagini in bianco e nero degli aerei che decollavano nei giorni della crisi di Cuba. Le guardavo terrorizzato. Ho passato una vita a chiedermi se ero stato davvero tanto fortunato da essere parte della prima generazione di europei a non dovere vedere da vicino gli effetti di una guerra da 2000 anni, dalla pace augustea. Speriamo che, per quanto precaria, la pax atomica regga anche in futuro.

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