Il mondo agricolo negli Usa. L’eco di “Furore” di Steinbeck. La rabbia rurale bianca oggi dietro il trionfo di Trump. Il romanzo di Jane Smiley, vincitore del Pulitzer nel 1992, arriva in Italia

La gente è il luogo dove vive. Se è costretta a scappare senza meta, non è più integra: non è più viva. È l’insegnamento che ci ha dato John Steinbeck in “Furore”, raccontando l’esodo epico dei contadini di Oklahoma, Texas, Kansas, Colorado e New Mexico dopo le Dust Bowl, le tempeste di sabbia che tra il ‘31 e il ‘39 trasformarono la terra in polvere. Seguendo l’epopea dei Joad, in fuga verso la California, abbiamo impara- to che la terra e l’appartenenza a quella terra sono consustanziali all’epica americana: evocazione di quei paradisi perduti e riconquistati che fanno sentire le persone permanenti, incastonate nel ciclo temporale infinito che si ripete stagione dopo stagione. Un paradiso senza caduta, almeno in quella visione idealizzata. Ed è sempre Steinbeck, nella “Valle dell’Eden” stavolta, a mostrarci come le madri muoiono, rinnegano i figli o semplicemente non ci sono: mentre la sola madre ineludibile è sempre lei, la terra.

 

«Nessun mappamondo, nessuna mappa erano mai riusciti a convincermi fino in fondo che la contea di Zebulon non fosse il centro dell’universo. Indubbiamente la contea di Zebulon, dove la terra era piatta, era un luogo in cui un oggetto sferico (un seme, una pallina di gomma, un cuscinetto a sfere) non poteva che raggiungere l’immobilità assoluta e, una volta fermo, affondare le sue radici fino a tre metri sotto il suolo». Il romanzo di Jane Smiley “Erediterai la terra”, pubblicato negli Stati Uniti nel 1991 e vincitore del premio Pulitzer l’anno successivo, ora proposto in Italia da “La Nuova Frontiera”, ha lo stile energico di chi canta e ha cantato il legame con la terra. Smiley raccoglie l’inevitabilità di un destino che stava dentro le parole di Faulkner; l’inevitabilità tragica che gorgoglia nei flussi e riflussi delle acque, fonte di vita e di morte, tra il gracidare delle rane e il frinire delle cicale. Come nell’Urlo e il furore assistiamo al declino di una famiglia che non è mai solo una caduta economica, ma è sempre un sovvertimento dell’ordine morale. 

 

Smiley racconta di quell’America agricola degli anni Settanta che Barack Obama quarant’anni dopo aveva cercato di proteggere contro i monopoli, quell’America i cui bisogni non venivano ascoltati dall’amministrazione Clinton e che non si era mai ripresa dalla Grande Recessione. Ma quegli sforzi sono serviti a ben poco. Obama aveva conquistato l’Iowa e la Carolina del Nord, aveva perso il Missouri per soli 0,13 punti percentuali. Nel 2020 Trump lì ha vinto con il 56,8 per cento. La maggior parte degli stati agricoli in quest’ultima corsa alla presidenza erano già con lui. Nel romanzo di Smiley, Larry Cook, pater familias e proprietario di mille acri di terra nell’Iowa un giorno convoca le sue tre figlie sotto la veranda del vecchio amico Harold, e all’imbrunire diventa Re Lear: lascia in eredità a Ginny, Rose e Caroline la sua terra, la sua ricchezza, il suo potere. Ma qual è il senso vero e profondo di un’eredità? Ereditiamo la forma degli occhi, i movimenti, il profumo degli armadi, l’odore di gasolio, la polvere della terra, la rabbia e la dolcezza. A formarci sono le forme dei nostri genitori, ma anche gli infiniti eventi secondari che si sono stratificati nel tempo. Chi sarebbero le tre sorelle, se non fossero figlie del loro padre? Chi sarebbero Ginny, la voce narrante, sorella maggiore di trentasei anni, donna dedita alla cucina, afflitta da un desiderio materno frustrato dai molti aborti spontanei; Rose, madre di due figlie, donna tagliente e impetuosa, dotata di un’avidità che non è solo materiale, ma è piuttosto un’avidità di vita; Caroline, lontana, misteriosa, che avverte una distanza incolmabile con le sorelle e per sottrarsi alle dinamiche familiari è scappata in città diventando avvocato?

 

Ereditare la terra è ereditare la promessa di un Eden, di una felicità prospera e generosa. Ma è solo un miraggio, perché il senso profondo dell’eredità è solo quello delle parole. Ereditiamo un sistema di narrazioni, ma anche tutto quello che da quelle narrazioni è stato escluso. «In fondo ero la figlia di mio padre e credevo inevitabilmente nella superficie intatta del non detto». In “Re Lear” la follia è data dall’incapacità di leggere il significato del mondo. Qui la follia che si estenderà a Rose e a Ginny – che si amano e si odiano in modo eccessivo e tragico, fino all’assassinio - è causata dall’emergere del non detto e di tutto quello che è affondato nel terreno melmoso della rimozione. Quella violenza che nessuno conosce, che mai ha intaccato l’immagine socialmente perfetta del proprietario terriero attorniato dalla sua prole. Ma le eredità non sono mai solo famigliari: le narrazioni, quando si diramano, diventano eredità culturali di un Paese. Al centro del dibattito accesissimo che ha preceduto le elezioni americane c’era la “white rural rage”, la rabbia rurale bianca. Per molti l’America rurale (quella dei Cook) è la terra dell’estremismo radicale; per altri, più semplicemente, gli abitanti delle zone rurali, isolate, lontane dai centri urbani hanno trovato attraente Trump e il partito Repubblicano perché si sono sentiti traditi e inascoltati, sono affondati nel timore che la tradizione della terra e la sua narrazione ancestrale fossero destinate a scomparire.

 

L’identità non può essere demandata al solo racconto della terra e del legame con quella terra. Re Lear, Steinbeck e Smiley ci insegnano che la sola madre possibile è la parola che si fa creazione. È la visione ampia di nuove possibilità che si svela all’orizzonte solo quando si elaborano le proprie radici, come fa Ginny, e finalmente ci si libera da qualsiasi forma di risentimento. Gli Stati agricoli non hanno avuto intenzione di farlo sin dall’inizio, o quasi; gli altri, che avrebbero potuto avere un ruolo decisivo lo hanno fatto, si sono aperti a nuove possibilità e a nuove narrazioni, ma guardando verso Trump e non più verso i democratici, come travolti da una nuova dust bowl che con Steinbeck non c’entra niente. Quella del vento populista.