Senza corpo. Senza volto. Senza l’altro. Tra chat e vocali, la comunicazione sta radicalmente cambiando. Ma qual è l’effetto di perdere l’abitudine al dialogo? Uno scrittore analizza i rischi

Ogni tanto credo che con gli amici qualcosa si sia incrinato. Telefono e non rispondono. Pochi richiamano a stretto giro, più spesso inviano un messaggio sulla chat: «Scusa, adesso non riesco, ci vediamo stasera», «Ti scrivo più tardi»... Poi la giornata va avanti e, per un’incombenza o una dimenticanza, non ci sentiamo: ci mandiamo un messaggio o un vocale a tarda sera. Ma, se ci penso più lucidamente, non è una questione di deterioramento del rapporto perché anche a me succede di non rispondere, non solo a chi chiama nel momento sbagliato per una noia di lavoro, ma anche a quegli stessi amici di cui mi lamento. Quasi tutti comunichiamo così, e da tempo ormai. Mentre mi mettevo a scrivere mi sono ricordato di quando insegnavo a scuola: in una terza liceo un alunno si trova in ospedale da una decina di giorni, sono un po’ preoccupato e chiedo aggiornamenti alla classe, ma nessuno sa niente. «Come mai?». «Non risponde nel gruppo della chat». «Ma lo avete chiamato?». Tutti e venticinque mi guardano perplessi: «Prof, noi non ci telefoniamo, chattiamo». Se parlarsi a voce risulta un atto inusuale o addirittura improprio per un giovane, da un adulto è percepito sempre di più come un gesto invadente. La stessa frase «L’ho sentito per messaggio», che usiamo per raccontare di essere in contatto con qualcuno, sposta l’ascolto (sentire) sullo schermo. Nelle relazioni è in atto una sorta di trasferimento strumentale che non implica più di necessità la presenza fisica dei soggetti e il loro scambio l’uno davanti all’altro con la forza della voce e il peso del corpo. Sono diventate potenzialmente telematiche le azioni finora essenziali per l’incontro: non solo l’uscita di casa, dato che posso farmi consegnare tutto sulla porta; non solo la fase preliminare della conoscenza di una nuova persona, che capita sempre più spesso su un’app che fisicamente; ma salta anche il dialogo diretto, faccia a faccia (o quanto meno voce a voce, se per telefono), ossia lo scambio che porta all’approfondimento della propria visione, al conflitto, al cambiamento di posizione, all’abbattimento di un pregiudizio o al rinforzo di una convinzione. Si ribatterà: esistono i messaggi vocali, attraverso quelli si parla e si ascolta. È una mezza verità: anche in questa modalità, infatti, il dialogo non è in tempo reale, è mediato e differito, perde nerbo e la stessa rigidità della comunicazione – si parla a blocchi fissi, senza continuità e senza mai sovrapposizione o interruzione – non permette di vagliare una tesi e controbatterla come avviene in presenza. Risulta dunque difficile affermare che in questo tipo di scambio ci sia vero ascolto.

 

Ciò che mi interessa è che la perdita di consuetudine col dialogo classico, quello platonico per capirci, ha delle conseguenze notevoli sui nostri rapporti: si fa più largo una comunicazione monologante e solipsistica che riproduce quella di un post social, in cui presento una parte di me, relegando a eventuali commenti (se accetto che ce ne siano) l’opinione altrui. Il confronto diretto, immediato, lo accantoniamo in un angolo e alla discus- sione preferiamo i like o il silenzio. Gli scambi in chat non sono nemmeno un simulacro del dialogo, lo sono infatti solo in apparenza, perché procedono smozzicati, sovrapposti, interrotti, mai continui e per questo forieri di equivoci e fraintendimenti, anziché di chiarimento e spiegazione. Si saltano i saluti e si perdono i riti – al telefono si esordisce con “Pronto” per indicare una predisposizione all’ascolto – gli stessi che troviamo proprio nei dialoghi platonici, in cui l’introduzione non è un semplice orpello, ma narra il momento dell’incontro e la ricerca di una situazione che possa ospitare il rito del dialogo (una passeggiata, un banchetto...).

 

In una telefonata, invece, questi passaggi non saltano perché il racconto ha possibilità di farsi più disteso, percepiamo il tono, la forza della voce, l’oscillazione dell’umore; abbiamo la possibilità di intervenire, interrompere, ragionare insieme, chiedere spiegazione su un passaggio non chiaro. E soprattutto è molto più probabile che in una telefonata ci si saluti, ci si chieda come va, si divaghi e nello stesso tempo, se si apre un discorso, lo si chiuda. Non ci è mai bastata per appagare il nostro bisogno di relazione, ma in una telefonata sussistono delle modalità di scambio, di dialogo e di interazione più forti e strutturate della chat. Questo nuovo modo di comunicare e interessarci agli altri, invece, ha permeato a tal punto la nostra vita che è arrivato a intaccarne la sfera più intima, ossia i rapporti che stanno dietro i numeri della nostra rubrica, persino quelli sotto la voce “Preferiti”. Credo che lo strumento stesso e l’uso intenso che ne facciamo ogni giorno inneschino una degradazione dei rapporti, nel senso che lo scambio di messaggi e messaggi vocali, se diventa il modo principale o esclusivo di interazione tra due persone, lascia molto spazio alla superficialità, ci fa credere di essere in relazione con l’altro quando non lo siamo davvero perché quel che sappiamo è un resoconto succinto che lascia il non detto alla nostra interpretazione e i tasselli mancanti all’intuizione. Comunicare via chat, inoltre, incentiva l’indolenza: ci riteniamo a posto per aver riassunto qualcosa in un vocale da un minuto o per aver ascoltato (a velocità raddoppiata?) le parole di un amico mentre eravamo affaccendati in altro.

 

Questa crescente disabitudine al dialogo faccia a faccia non si vede soltanto nella nostra vita privata ma anche in contesti pubblici come la comunicazione politica, affidata sempre meno al confronto e sempre più a brevi monologhi, che sia un annuncio su un social o una dichiarazione senza contraddittorio. È in parte comprensibile: esporsi al confronto è una fatica non da poco, e la tecnologia nasce per alleviarle, le nostre fatiche. Certo, come un farmaco, presenta degli effetti collaterali. Uno di questi – si diceva – è la pigrizia crescente verso il dialogo che, nel contesto politico, può trasformarsi in una pratica meno assidua della democrazia. La democrazia, proprio come il dialogo che è la sua struttura dialettica, ci chiede un continuo sforzo di attenzione e di interazione, pretende che rimettiamo ogni volta tutto in discussione e che ci facciamo all’occorrenza ascoltatori e attori. Senza il corpo, senza i volti e le voci che possono fluire libere coi loro toni e le loro energie, senza la presenza costante di una controparte, è difficile pensare a una democrazia sana, così come è difficile pensare, nella sfera privata, che la cura delle relazioni sia attuabile attraverso scambi disarticolati di chat. Hans-Georg Gadamer diceva che la nostra è la civiltà del dialogo. Chissà se lo direbbe ancora.