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Perché L'amica geniale convince anche questa volta
Un dualismo continuo, la prosa calda, l'interpretazione azzeccata, la polvere del Rione attaccata alla pelle, i cerchi che provano a chiudersi: "Storia della bambina perduta", quarta e ultima stagione della serie tratta dai libri di Elena Ferrante, merita di essere guardata. E su un aspetto mette davvero tutti d'accordo: Nino Sarratore, omm’ e merda
Una donna e il suo doppio, due esistenze che si abbracciano e si dividono e ritornano in un eterno movimento, sintesi estrema degli opposti in cerca di una pace che non c’è. Lina e Lenù, le due bambine prigioniere nel Rione, che hanno spiccato il volo senza riuscire a distaccarsi dalla polvere, sono per l’ultima volta protagoniste con “Storia della bambina perduta”, episodio finale della saga de “L’amica geniale” firmata Ferrante, la più amata e divisiva, esattamente come il sentore che avvolge le sue protagoniste.
Quella prosa calda pennellata di poesia, in cui si intersecano suggestioni letterarie e brandelli di lingua napoletana, è tornata ancora una volta su Rai 1. E ancora una volta convince.
La mano di Laura Bispuri alla regia si sente, capace di trasmettere un’intimità a tratti brutale, con quei primi piani che sanno di carne, volti arrossati dalla rabbia, sopraffatti dal desiderio, mossi dal dolore. E in questa resa a tratti fisica si espandono i contorni delle protagoniste, che non possono lasciarsi ma non riescono a unirsi, sulle spalle il peso della violenza fisica ed emotiva del loro essere donne, lo strappo del tradimento, il senso viscerale della famiglia.
Un cerchio che si chiude nel suo restare spalancato, aiutato nel movimento dalla voce narrante di Elena che si svela nei panni di Alba Rohrwacher e quel tono suadente da testimone del tempo che si traduce, con naturalezza inevitabile, in immagine.
Così, tra il sudore e le lacrime e quelle pance che crescono con le nuove vite che non porteranno a delle nuove strade, l’aria del Rione si aggrappa alla pelle, il luogo malsano che riesce a sformare atti e pensieri, come una siringa abbandonata. Ed entra la Storia, non più quella color seppia della prima stagione, ma quella acida, della terra che trema, della politica che vibra, dell’urgenza dell’impegno. Intanto i topi corrono, materializzando le paure di Lila, che guarda il brulicare dell’orrore attraverso gli immaginifici occhi di Irene Maiorino che continua a rincorrere la sua altra da sé in un grumo di sentimento e dipendenza, in una simbiosi di competizioni mai risolte attratte da un passato che ha la forma del buco nero.
E alla fine, quando le bambole tornano al loro posto, resta come un tarlo del dualismo immanente il personaggio più odiato, preso per mano da un Fabrizio Gifuni al suo meglio, che rappresenta nella sua pienezza il vuoto dell’animo umano. L’intellettuale elegante dal volto pulito, vestito di fascino e parole suadenti ma che lascia all’apparenza tutte le sue doti per nascondere dietro agli occhiali un’anima nera. E mettere d’accordo tutti: Nino Sarratore, omm’ e merda.
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DA GUARDARE
Ci sono programmi semplici che hanno nelle storie tutto quello che serve. È il caso di “Nuovi eroi”, tornato per la nuova stagione su Rai Tre, in cui si raccontano i trenta cittadini premiati da Sergio Mattarella. Ritratti di empatia e umanità. Materie che di questi tempi, si maneggiano assai poco.
MA ANCHE NO
Alessandro Cattelan è come sempre bravo bravissimo. Anche a gestire nel più completo abbandono questo inutile “Sanremo giovani” su Rai Uno. Ma visto che è assai capace, bisognerebbe smetterla di accompagnarlo per mano come un bambino al primo giorno d’asilo perché davvero non serve.