Il disagio nei centri urbani. I flussi migratori che richiedono soluzioni nuove. La difficile convivenza nell'era digitale. L’inganno della natura. I classici. E i saggi di Cucinella e Consonni

Chi se la sentirebbe oggi di ripetere il celebre proverbio medievale “L’aria delle città rende liberi”? E non solo perché sotto questo termine sono comprese realtà abissalmente diverse, ma perché i tratti distintivi degli agglomerati denominabili città si sono attenuati o evaporati del tutto. La crisi delle città è qualitativa, non certo quantitativa. Si sa che il discorso investe in misura particolarmente pregnante l’Europa, ma non si può dire che, nello scenario globale entro il quale oggi viviamo, il fenomeno non sia verificabile in larghissima parte del mondo.

Se le metropoli sono da sempre percorse da drammatici contrasti, anche le città medie italiane, quelle più derivate dall’epica ascesa dell’età comunale, soffrono di un malessere che mette a disagio. Non è in gioco solo la sicurezza che il varcare le mura di un città faceva sperare: è in gioco l’anima stessa, la cifra fondante. Ci voleva un urbanista che fosse anche poeta e artista innovatore per scandire una piana analisi, tra evocazione del passato e decadimento del presente: Giancarlo Consonni, professore emerito di urbanistica al Politecnico di Milano ci offre un piccolo libro, compatto come un breviario: “Non si salva il pianeta se non si salvano le città” (edito da Quodlibet). Vi propone riflessioni che si soffermano su pagine classiche circa il sorgere stesso dell’idea felice di una convivenza operosa e sulla corruzione che essa ha subito a partire dalla prima rivoluzione industriale, ora aggravata dall’esplodere di modalità comunicative e relazionali dominate da incontrollabili potenze del web. «La crisi delle città in cui ci dibattiamo è tutt’uno con la caduta della tensione all’abitare condiviso e all’urbanità», scrive. Tra i contributi da antologia di stringente acutezza spiccano due righe di Giovanni Michelucci, che nel suo volume su Brunelleschi (1972) condensava l’essenza del modello di città al suo sorgere, il suo essere «città-teatro, teatro-città, dove la vita diviene rappresentazione di se stessa».

L’architettura era incaricata di corrispondere a quanto accadeva in spazi che erano «interni a cielo aperto», non dovevano obbedire esclusivamente a criteri di funzionalità, ma attingere in luoghi deputati un’evidenza simbolica, l’attrattiva della bellezza. Altro termine – la bellezza – da impiegare con parsimonia, senza enfasi estetizzante, al pari di “comunità”. Poiché, se è vero che le città associavano in un medesimo destino esperienze associative o complessi edifici finalizzati a rinsaldare svariate forme di rapporto (famiglie e conventi, corporazioni e uffici pubblici), le parti serbavano un loro identitario orgoglio e l’unitarietà era un traguardo mai  pienamente raggiunto. Giorgio La Pira è stato uno degli interpreti più convinti della città organica, plurale nelle contese terrene ma sorretta da un’affratellante fede cristiana venata di utopia.

Le aspirazioni non corrisposero che raramente alle intenzioni. Eppure elementi non secondari di quel mondo sono oggi di nuovo ripresi e rilanciati di fronte alla crisi. Basti citare la Carta urbana II (la prima risale al 1992) e il contestuale Manifesto per una nuova urbanità elaborato dal Consiglio d’Europa nel 2008. Dove tra l’altro si proclama con la retorica tipica dell’istituzione che «le città europee appartengono ai cittadini che vi abitano, sono un bene economico, sociale e culturale che deve essere trasmesso in eredità alle generazioni future». Esse – si aggiunge – «sono un terreno favorevole per la diversità creativa, racchiudono potenti forze innovative e hanno la capacità di integrare e di arricchire reciprocamente le molteplici identità e culture che racchiudono».

La distanza tra questi lati principi e le quotidiane smentite suscitano angoscia. Fatto è che oggi la dissociazione tra architettura e urbanistica sembra irreversibile. «Per gli urbanisti la riscoperta tardiva delle virtù della città classica, nel momento in cui queste sono diventate definitivamente impossibili, è stato probabilmente il punto di non ritorno, un fatale momento di disconnessione», ha scritto con sarcastico cinismo (2021) Rem Koolhass. La cosiddetta urbanistica contrattata sovente si è risolta nel mettere pezzi appetibili delle città in mano alla più spregiudicata imprenditoria. Consonni insiste sulla categoria di “urbanità”, una dimensione cioè che, pure entro quadri quantitativamente mutati, salvi e riproponga lo spirito di  una “convivenza civile” accordando rilievo prioritario alle “infrastrutture della socialità”.

Le problematiche dei flussi migratori devono essere considerate realisticamente e spingere a investimenti non incidentali per una difficile integrazione. La divaricazione tra città e campagna va superata. Le periferie vanno rese decorose e sicure. Le zonizzazioni prodotte dal razionalismo del Moderno allocando le attività che davano vita alle città invece che un nuovo ordine si sono rovesciate – notazione mia – in una sorta di dialettica dell’illuminismo, in un trionfo della vorace tecnocrazia. Mario Cucinella con Serena Uccello in un volume einaudiano di esemplare chiarezza, “Città foresta umana L’empatia ci aiuta a progettare” (Torino 2024) esalta una progettazione che ambisca a istituire una relazione empatica con la natura: «Io credo – afferma –  che il nostro sforzo debba essere quello di immaginare, progettare, realizzare edifici in grado di adattarsi all’ambiente esattamente come fa una pianta». Architetto, allievo di Giancarlo De Carlo, collaboratore di Renzo Piano, polemizza con l’idoleggiamento in voga delle archistar. Il rinascimento delle città come nuclei di una più che mai necessaria solidarietà civile (e politica) potrà scaturire solo da un moto di intelligenza collettiva:«I giovani sono in grado di far rivivere un quartiere. E allora perché non considerare aree ibride, in cui convivono gli universitari, le scuola, gli asili ma anche gli ambulatori e i parchi? Creiamo punti di incontro urbani tra giovani e anziani, con un “housing” non solo sociale ma dedicato anche alla fasce medie».

Non persuade una dose eccesiva di ecologismo. “Natura” è un’altra parola ingannevole: suscita illusioni e ricette semplificate. La “naturalizzazione della città” può, però,  intendersi pure come ricerca di un sistema di relazioni che si opponga alla fuga dai centri urbani e alla concezione idilliaca dei borghi quale rimedio, ahimé disgregante, e resa alla conservazione di esose e illogiche disparità. Purtroppo certe buone idee lanciate dall’Unione europea hanno gambe gracili. Ma l’iniziativa di metter su un “New European Bauhaus”, un Bauhaus europeo, presentata dalla Commissione di Bruxelles nell’ottobre 2020 è un’intuizione da sviluppare. La “Casa del costruire” concepita da Walter Gropius nel 1919 puntava a fondere arte e artigianato, mestieri umili e audace creatività, utilità e bellezza e a promuovere una condivisa cultura, attrezzata e coraggiosa, della cittadinanza. Utopia anche questa?