Quando il ministro degli Esteri britannico si è incontrato virtualmente a Varsavia lo scorso 19 novembre con i colleghi dei principali Paesi dell'Unione per parlare delle mosse da intraprendere in questi mesi di tempesta geopolitica, si è trovato nell'insolita compagnia dei rappresentanti di Germania, Francia, Italia, Polonia e Spagna (da remoto). È stata la prima volta, ma non sarà l'ultima, che questo quintetto europeo s'incontra in un conclave ristretto per discutere delle sorti dell'Unione. Con il declino economico della Germania e dell'Italia e con l'incertezza politica della Francia, la Spagna e la Polonia, sospinte da economie su steroidi e forti di un ruolo geopolitico sempre più importante, stanno assumendo un posto centrale nei destini decisionali dell'Unione. E ciò nonostante arrivino dalla periferia: una da quella occidentale, l'altra da quella orientale. Negli anni Ottanta e Novanta considerata la nostra cugina povera, la Spagna oggi sta letteralmente tallonando l'economia italiana in quei settori di cui ci siamo sempre vantati: l'industria dei servizi, con in testa il turismo, che in Spagna cresce a tassi di quasi il 10 per cento annuo; la manifattura d’eccellenza, in particolare nei prodotti del design e della moda, sempre più raffinati e popolari; infine, l'industria verde, con le auto elettriche come prodotto principale. In tre decenni Madrid ha duplicato la sua partecipazione nell'economia globale, superando l'Italia e la Francia come principale esportatrice dopo la Germania. Ora l'export spagnolo ha un peso del 39 per cento sul suo prodotto interno lordo (Pil) rispetto al 33 per cento di quello italiano e al 43 di quello tedesco. Impossibile parlare di politica commerciale europea senza ascoltare cosa abbia da dire una Madrid che sta vivendo adesso la sua personalissima globalizzazione.
Secondo le ultime previsioni della banca d'affari statunitense JP Morgan, che ha rivisto al rialzo tutte le proiezioni del Pil spagnolo, il successo della sua economia si fonda, oltre che sulla forza del settore del turismo, in un'espansione senza precedenti, su bassi costi dell'energia ottenuti con il massiccio ricorso alle fonti rinnovabili, su un mercato del lavoro con un alto potenziale di creazione di posti di lavoro e - da notare - su un notevole flusso migratorio che sta facendo aumentare la popolazione del Paese, contribuendo alla sua crescita economica. Il Pil spagnolo metterà a segno quest'anno un'impennata del tre per cento, rispetto a una media europea dello 0,9 per cento (l'Italia si ferma allo 0,7) e, nelle previsioni, potrebbe continuare a salire di oltre il due per cento sia nel 2025 sia nel 2026. Proprio quel più tre per cento è ciò che la Spagna, quarta economia europea, ha oggi in comune con la Polonia, al quinto posto. Il Paese al confine orientale dell'Europa, conosciuto fino a qualche anno fa soprattutto per i suoi idraulici, che, a stare alla vulgata comune, avrebbero tolto lavoro ai britannici pre-Brexit, negli ultimi vent'anni, ovvero dalla sua entrata nella Ue, ha letteralmente raddoppiato le dimensioni dell’economia, sfruttando al meglio i fondi di coesione e le opportunità offerte dal mercato comune, in particolare, della Germania, dove esporta quasi il 30 per cento della sua produzione. Secondo l'Istituto di statistica nazionale, l'economia polacca è del 40 per cento superiore a quello che sarebbe stata se non fosse entrata nella Ue. L'anno prossimo potrebbe fare ancora meglio, con un’espansione di almeno il 3,6 per cento, alimentata da consumi e investimenti privati in forte crescita.
Più impressionante della ricchezza lorda, un dato utile anche per capire la lunga tenuta del passato regime politico, al potere per otto anni consecutivi, è quello del “Pil pro capite”: se in un'economia di mercato “vecchia” come quella italiana si aggira sui 38mila euro l'anno e in Spagna è pari a 32.600 euro, in Polonia ha già raggiunto i 22mila euro l'anno, aiutato da una popolazione di ridotte dimensioni a spartirsi la ricchezza nazionale complessiva e da aziende con un buon livello di produttività. La Banca centrale prevede che nel 2027, cioè tra soli due anni, potrebbe addirittura superare quello della Spagna, e nel 2030 quello dell'Italia. In altre parole, i polacchi entro la fine di questo decennio potrebbero essere più ricchi di noi italiani. Fino ad oggi, a giocare un ruolo importante nella crescita polacca e spagnola sono stati gli investimenti pubblici, alimentati sia dai fondi di coesione ben utilizzati che dai soldi dei piani di recupero e resilienza post-Covid. Ma una spinta particolare la Spagna l'ha ricevuta anche dalla crescita della sua popolazione, grazie al contributo degli immigrati, soprattutto latinoamericani. Se tra il 2019 e il 2024 la popolazione italiana è diminuita dell'1,4 per cento (passando da 59,8 a 58,9 milioni di abitanti), quella spagnola è aumentata del 3,6 per cento, andando dai 46,9 ai 48,9 milioni di cittadini e contribuendo a espandere l'offerta di manodopera necessaria alle imprese spagnole in questa fase di espansione. Ben conscio degli effetti positivi sulla propria economia, il governo socialista di Pedro Sanchez, in controtendenza rispetto alla Polonia (ma anche all'Italia), ha in agenda per l'anno prossimo la regolarizzazione di 300 mila irregolari. Obiettivo: reagire al crollo del tasso di natalità della gran parte dei Paesi occidentali e aumentare la forza lavoro nazionale. Secondo gli analisti, Madrid dovrebbe aggiungere al mercato del lavoro circa 250mila persone l'anno per mantenere costante il proprio sistema di welfare. Non a caso negli ultimi dieci anni ha concesso 250mila “visti dorati” a vari investitori stranieri, soprattutto personale altamente qualificato.
Un discorso opposto vale da anni per la Polonia: indipendentemente dal partito al potere, Varsavia è contraria a ogni forma di accoglienza e integrazione degli immigrati. Ma il mercato del lavoro è cresciuto ugualmente. Come? Contro ogni previsione, la contingenza drammatica della guerra in Ucraina ha portato sul suolo polacco oltre quattro milioni di rifugiati ucraini, di cui almeno un milione e mezzo, facilitato da lingua e usi simili, vi ha trovato una nuova vita. Nello stesso tempo, e seppure fra tante contraddizioni, la Polonia, che a gennaio assumerà la presidenza di turno dell'Unione europea, è diventata il vero fronte di resistenza all'aggressività russa, forte di quel 4 per cento del Pil derivante dalla spesa in armamenti (rispetto all'1,3 della Spagna e all'1,5 dell'Italia). Una forza, quella militare, che ha finito per farla prendere sul serio dagli Usa, e renderla de facto Paese chiave nelle negoziazioni diplomatiche internazionali, proprio nel momento in cui l'Europa sta approfondendo la sua politica estera comune e sta muovendo i primi passi verso una comune difesa. A partire dal minacciato confine orientale. Il miracolo economico di entrambi i Paesi ha i suoi punti deboli. In Spagna l’accresciuta ricchezza nazionale non si riflette ancora nei portafogli individuali. In Polonia la dipendenza da una Germania più debole rischia di limare l’espansione futura. Ma un dato è certo. L’Europa, e l’Italia in particolare, non potrà più permettersi di ignorare entrambi i partner europei.