Il piano
La sfida di Elly Schlein: convincere gli elettori fuori dal Palazzo
Paesi, fabbriche, ospedali, carceri, piazze. Così la leader del Pd gira l’Italia per ricucire col suo popolo. E tentare di vincere la sfida contro Giorgia Meloni. E Giuseppe Conte
La signora Orlandina non ha certo l’agilità della centometrista e anzi arriva poco sopra il gomito della segretaria, ma ugualmente la insegue con una determinazione d’altri tempi lungo il corso di Piombino: quando è vicina la placca, si gira di scatto e si mette in posa per il marito, arrivato nel frattempo ansimando con la macchinetta fotografica. Alla domanda su cosa le piaccia di Elly Schlein tanto da farla correre per strada a quasi ottant’anni, fornisce una risposta spiazzante: «Mi piace come parla».
Le signore Laura e Letizia, quando poco dopo vedono la segretaria salire su un panchetto di legno prestato dall’alimentari Rosa, per farsi sentire meglio al comizio di Piazza Gramsci, sgranano gli occhi. «Uddio», come è giovane. «A me mi incanta. Parla bene». «Ha un linguaggio complicato? Ma no, scusi, non mi sembra».
Non è gente che stia facendo una sottile contro-polemica: anzi guardano un po’ stupiti per la domanda, gli sembra astrusa. Qualche giorno prima, durante un incontro all’ospedale di Avezzano, un barelliere aveva detto: «Si vede che Elly non ha fatto solo politica, perché quando parla si capisce». Sembrano provocazioni, è la realtà coi suoi inciampi: per somma ironia, la donna che nei Palazzi viene descritta con scherno come quella complicata, colei che persino Lilli Gruber, in una puntata di “Otto e mezzo”, rimproverò perché usava la parola «esternalizzazione», fuori dai salotti, nelle piazze e nelle periferie d’Italia viene ascoltata, e inseguita, proprio per come parla e per come si fa capire.
Forse – ma è un’ipotesi – la comprendono meglio fuori, che dentro.
In queste settimane, tra Montecitorio e il Nazareno tiene banco la discussione su una possibile candidatura della segretaria alle Europee. Intanto Elly Schlein continua a fare, appena può, ciò che fa da tempo: va in giro per l’Italia. Incursioni, sopralluoghi, carotaggi. Per capire, per dialogare, per «ricucire» – termine d’elezione nello schlein-dizionario. Talvolta ci sono le telecamere, come all’incontro dem di Cassino, talvolta no. Giornate intere dedicate a pezzi di Paese invisibili. Invisibili da Roma, almeno.
Le piccole città e i paesini di montagna, le zone interne, gli agricoltori, gli allevatori, i medici, i piccoli imprenditori, i portuali, i precari della logistica. A Napoli, a Genova, all’Aquila, a Rieti, a Civitavecchia. Chi se la cava e come, chi è in crisi e perché. Le raccontano e lei prende appunti con la mano arroccata su blocchetti, foglietti, sul lato liscio delle buste postali, sul retro dei volantini, sul primo pezzo di carta che trova. Scrive, scrive, poi si porta via tutto: ri-estrae quei fogli nei convegni, nei palazzi, alla Camera quando sembra che faccia esempi di scuola, astratti, e invece a quelle parole corrispondono sempre un viso, una storia, un rigo.
Testimonianze raccolte per strada, nei circoli, nei centri antiviolenza, in carcere dove, come ha raccontato dopo la visita a quello della Spezia, un detenuto le ha chiesto «di parlare in tv delle condizioni delle guardie carcerarie, che sono inaccettabili». Ci sono gli ospedali, dove a forza di sentirla parlare di sanità pubblica i primari insistono a volerla e la invitano a entrare – dall’Umberto I di Tagliacozzo al Pronto Soccorso del Galliera a Carignano giusto per fare due esempi – per mostrarle lo stato dell’arte, la lotta quotidiana, qualche soluzione, le barelle nei corridoi. Ci sono i giovani padri come Marco Macrì che si battono per l’assistenza ai bambini disabili, in piazza con il manifesto scritto a pennarello dei livelli minimi necessari, e che lei legge per intero prima di dire «ci siamo, faremo il possibile». I bambini come Filippo, a Passo Corese, che le chiedono: «Bisogna dire basta a uccidere rinoceronti, e bisogna finire la guerra». Si farà il possibile anche per questo.
E poi ci sono gli operai, certo. Giusto a un anno esatto dal blitz di Stefano Bonaccini al Cancello 2 Mirafiori, il molto pubblicizzato incontro dell’allora candidato alla segreteria per «stare vicino alla gente» almeno a un cambio turno, venerdì scorso Elly Schlein ha incontrato i lavoratori del siderurgico di Piombino, la mattina presto, e quelli dell’Ilva di Cornigliano, a Genova, quasi all’ora di cena. Ai rappresentanti sindacali nelle acciaierie toscane, dopo il giro di interventi consueto, la «segretaria generale» – così l’ha chiamata un delegato Fiom – invece di parlare lei, ha fatto una specie di intervista collettiva, abbastanza insolita: quaranta minuti di domande per capire gli aspetti più ambivalenti della vicenda, tra memorandum non firmati e cassa integrazione, rischio di deriva greca, rotaie che si producono solo qui, una città che si sta spopolando.
La sera, ancora più delicato, l’incontro con i lavoratori dell’ex Ilva, a Genova, nella stanzetta angusta delle rappresentanze di fabbrica, metà neon non funzionanti, sotto un enorme manifesto coi lavoratori in corteo. I sindacalisti, dalla Fiom in giù, pur apprezzando «questo ritorno nelle fabbriche», non l’hanno mandata a dire: «Troppe volte il Pd è stato poco chiaro sul ruolo dell’industria in questo Paese», non c’era quando doveva, ha festeggiato quando non era il caso; adesso serve sostegno per «chiedere garanzie e un intervento forte» perché «rischiamo di fare la fine della chimica, dell’Enimont, dell’Alitalia». E Schlein è stata altrettanto chiara, anche nel sottoscrivere la richiesta che l’ex Ilva «torni a essere pubblica»: «Sono qui consapevole che un’autocritica è necessaria, in passato siamo mancati, ma siamo al vostro fianco, il Pd farà tutto quello che può, proviamo a scrivere una storia nuova», ha detto la segretaria, mentre in fondo alla saletta l’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati annuiva. Ricucire, anzitutto.
Sono giornate, un cammino, che all’apparenza nulla ha a che vedere con l’altro mondo, quello della Roma politica, dei corridoi e dei partiti. Tanto appare isolata, a volte, quella Schlein, quanto la Schlein di piazza è incoraggiata, abbracciata, baciata, brancata, sostenuta da mille mani, le sue fotografie da conservare quasi come una reliquia. È abbastanza impressionante, specie dopo anni di capi della sinistra che per riempire un comizio avevano bisogno di una benedizione, loro per primi.
È ancora più impressionante perché poi ci si sposta nel Palazzo e accade l’opposto. Come martedì pomeriggio, alla presentazione a Montecitorio del libro di Roberto Speranza, dove proprio l’ex ministro della Salute ha esclamato: «Non vorrei escludere dalla discussione Elly», dopo che per cinquanta minuti la discussione, moderata da Lucia Annunziata, era rimbalzata appunto solo tra lui e Giuseppe Conte, tagliando fuori la segretaria dem che era sul palco come gli altri. E che a quanto pare guida un partito nel quale persino l’ala sinistra, che dovrebbe esserle più vicina, finisce invece per avere nostalgia dei tempi in cui il capo del governo e «punto di riferimento fortissimo della sinistra» era Conte.
E qui arriva l’altro elemento che caratterizza questo tempo. Tanto nel mondo reale Schlein si muove agile, incontra, saluta e ascolta, quanto nella bolla delle liturgie politiche è impegnata in una specie di esercizio da disciplina orientale. Tra il judo e la meditazione. Restare immobile di fronte a qualsiasi attacco o provocazione, anche a costo di apparire un peso piuma senza spina dorsale, di scontentare tutti i testosteronici fan del braccio di ferro interni all’opposizione. Ostinatamente unitaria anche quando Conte, come in questi giorni, tenta di smontare ogni operazione d’alleanza, dicendo no al sit in davanti alla Rai con una nettezza che da lui ci si aspetterebbe (invano) nella scelta di campo tra Biden e Trump, oppure definendo «bellicista» il Pd e scagliandogli contro il solito inceneritore di Roma. Immobile, Schlein al massimo rifiuta di ripetere davanti ai fotografi lo scambio del bacetto sulla guancia con il leader M5, perché nemmeno coi baci bisogna esagerare.
Risparmia invece le forze per colpire là dove ha posto il centro della sua sfida: Giorgia Meloni e il suo governo, la «regina dei tagli», la «Wanna Marchi» della politica, secondo lo schema che si è visto nel question time di fine gennaio, un format nel quale la segretaria dem appare perfettamente a suo agio. È una specie di doppia sfida con strumenti opposti – fare Gandhi con Conte, fare Kill Bill con Meloni – che probabilmente ritiene il vero mandato dei suoi elettori, quelli che un anno fa la votarono alla guida del Pd, quelli che a giugno potrebbero votarla alle Europee, se decidesse di candidarsi. Dentro una situazione complessiva che – ha riconosciuto anche Romano Prodi nell’intervista al Corriere della Sera del 30 gennaio – è per complessità «la più difficile in cui si possa ritrovare un leader». Se fosse stata facile, d’altra parte, un anno fa non l’avrebbe spuntata lei.