Guerra & business
Quanto costa all'Europa proteggersi da Vladimir Putin
Tra conflitto in Ucraina e minacce di disimpegno Usa, l’Europa ha deciso di costruire una Difesa comune. Le spese militari aumentano, ma ogni Paese va per conto proprio
Il problema l’ha evocato Mario Draghi nel suo discorso all’Ecofin di metà febbraio, ma a rompere decisamente il ghiaccio è stata pochi giorni dopo Ursula von der Leyen: «L’Unione Europea – ha scandito la presidente della Commissione – vuole sviluppare per l’industria della Difesa la stessa strategia utilizzata per i vaccini contro il Covid e per gli acquisti di gas». Vale a dire: finanziamenti, progettazione e acquisti coordinati che permettano economie di scala e diano nello stesso tempo un’idea dell’Unione come forza coesa e determinata. Lo stesso circuito virtuoso che ha permesso, appunto, di uscire dall’incubo della pandemia e di affrontare la crisi energetica. Ma stavolta si parla di Difesa: è la rottura di un tabù, resa urgente dalla guerra in Ucraina e dalle minacce di Vladimir Putin. Una svolta epocale per l’Ue: dando seguito al suo annuncio, la presidente ha presentato il 5 marzo la nuova strategia di investimenti comuni, incentivi europei al potenziamento degli armamenti, coordinamento fra i 27 Paesi nella Difesa per evitare disfunzioni, sprechi, duplicazioni. «Ora ci sarà il dibattito al Parlamento di Strasburgo, dove la maggioranza è sicuramente sufficiente per approvare queste linee-guida, e realisticamente dovrebbe essere così anche con la nuova legislatura che uscirà dalle elezioni del 6-9 giugno», commenta Alessandro Marrone, responsabile per il progetto Difesa dell’Istituto Affari internazionali. «Il problema sarà semmai dribblare le decisioni che vanno prese all’unanimità, dove c’è sempre qualcuno che si mette di traverso. Ma per il momento, su un argomento così cruciale, si può andare avanti». Una spinta ulteriore l’ha data Paolo Gentiloni, commissario all’Economia, che ha auspicato «una svolta per la Difesa comune».
Non si tratta di andare alla guerra, perché è vietato dai trattati, ma dopo l’unione monetaria («peraltro ancora incompleta a 25 anni dalla nascita della Bce», ricorda l’economista Giampaolo Galli), nasce l’unione militare. Ci voleva l’attacco russo contro Kiev perché l’Ue trovasse la ragione per affrontare un problema chiave nella sua evoluzione. «Putin teme che l’incremento delle capacità di difesa europee sia lo strumento principale di deterrenza verso i suoi criminali propositi», ha scritto sul Foglio Vittorio Emanuele Parsi, tornato battagliero (è il caso di usare questo termine) dopo la sua sofferta vicenda medica. «Né l’accostamento con i vaccini deve scandalizzare perché si tratta semplicemente di attivare lo stesso meccanismo di ricerca e commercializzazione comune».
Sgombrati gli equivoci etici, rimane il problema economico. «Sulla Difesa le questioni sono molto più complesse che sulla messa in comune di qualunque altro bene pubblico», riconosce Andrea Boitani, economista della Cattolica. «Per finanziare gli investimenti necessari a fare il salto di qualità, si è parlato di emissioni di eurobond ad hoc, ma è un passo che si scontra con le eterne perplessità dei Paesi più forti. Anche senza manovre dirompenti però molto può essere fatto in termini di razionalizzazione». C’è poi la spinta al “comprare europeo”: la Ue è forte industrialmente al punto che molti acquisti che oggi si fanno in America (il 75% secondo la Nato) possono essere rivolti a produzioni europee opportunamente rafforzate. «Con gli eurobond tra l’altro si rischia di infilarsi nel garbuglio delle garanzie già vissuto per il finanziamento del NextGenEu», riprende Galli che dirige l’Osservatorio sui Conti pubblici di Milano. Le garanzie devono basarsi sul capitale proprio dell’Ue che si fatica a costruire: la carbon tax sulle importazioni, una specie di dazio sui prodotti inquinanti, fatica a diventare operativa, e altrettanto farraginoso è lo storno di parte dei profitti del mercato degli Ets, i “titoli” che pagano le aziende per restare nei limiti della sostenibilità. Resta una percentuale dell’Iva: «Servirebbe però – dice Galli – un’Iva europea riscossa direttamente dall’Ue, che finora si è scontrata con le cessioni di sovranità». Comunque, l’Ue è riuscita a creare nel 2021 l’European Defense Fund, «che supporta con 10 miliardi gli investimenti in R&D dando la preferenza a quelli intrapresi insieme da più Paesi dell’Unione», spiega Antonio Missiroli, analista dell’Ispi. «A essi si sono aggiunti 800 milioni allocati l’anno scorso per la produzione e l’acquisizione congiunta di munizioni». Il fondo scade nel 2027, ma martedì scorso von der Leyen ha assicurato che sarà rifinanziato (si parla di un impegno pluriennale fino a 100 miliardi), rinviando per i dettagli al vertice dei leader Ue del 21-22 marzo. E non è escluso che venga creato perfino un commissario alla Difesa nella nuova legislatura europea.
Anche se non rispondono a un disegno comunitario, le spese per la Difesa dei Paesi europei stanno accelerando. Se non ora quando: ci sono da rispettare gli accordi e Donald Trump minaccia di lasciarci “scoperti” se tornerà alla Casa Bianca. «Per il funzionamento organizzativo della Nato, che è solo parte del problema, negli ultimi tre anni il contributo nordamericano è sceso dal 28,5 al 23% delle spese mentre quello dei membri Ue è salito dal 55 al 60% per un totale annuo di circa 2,5 miliardi», spiega Missiroli, lunga esperienza internazionale compreso l’incarico di Assistant Secretary General della Nato per le “Emerging Security Challenges”. «Nella Ue, le spese militari per il 2024 toccheranno i 250 miliardi, il 40% in più rispetto a 10 anni fa e sarà superato in media il 2% del Pil concordato con la Nato». È vero che l’America spende il 3,9% del suo Pil, ovvero 822 miliardi di dollari quest’anno (la metà dell’intero budget federale), ma l’Europa si muove: entro il 2024, calcola l’Ispi, 18 Paesi Nato su 31 (erano 5 pochi anni fa) rispetteranno il target prefissato. Ce la farà anche la Germania grazie al fondo speciale da 100 miliardi in 4 anni creato dopo l’invasione dell’Ucraina. La spesa totale dei Paesi “europei” della Nato (compresi cioè Gran Bretagna, Norvegia e Turchia) è salita da 230 a 380 miliardi fra il 2014 e il 2024, stando all’European Defense Agency.
E l’Italia? Quest’anno, stando alla legge di Bilancio 2024, resterà il fanalino di coda: la spesa per la Difesa passerà solo dall’1,3 all’1,4% del Pil grazie a stanziamenti di 1,4 miliardi (+5,1% sul 2023) tra fondi per l’acquisizione di armamenti e sviluppo dei programmi tecnologici, con 29 miliardi di budget totale. «Negli anni della guerra fredda si arrivò al 3% del Pil e recuperare non è semplice», spiega Stefano Silvestri, già sottosegretario alla Difesa e consulente di vari governi. Racconta Silvestri, a riprova che l’Italia arranca da sempre: «Alla fine degli anni ’70 l’International Institute for Strategic Studies di Londra mi mandò a Roma per verificare gli investimenti. Mi ricevettero in pompa magna generali e capi di stato maggiore, ma quando si parlò di cifre scese un imbarazzato silenzio».
Oggi l’incertezza è superata dall’impegno dell’Ue e dalla cooperazione rafforzata con la Nato. Il commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton, e Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza, hanno regolari incontri: se Germania, Spagna, Romania e Olanda hanno deciso di costruire un impianto che sfornerà mille missili Patriot, è grazie alla Nato che si è impegnata ad acquistarne per 5,6 miliardi. Ancora: i tedeschi di Rheinmetall e gli ucraini di Ukroboronprom hanno firmato un accordo per l’assemblaggio a Kiev dei Leopard 2: «Potremo produrre 400 carri l’anno», ha affermato Armin Papperger, ceo del gruppo di Dusseldorf da 6,9 miliardi di fatturato. Joint venture in vista con un’azienda tedesca, la Hensoldt specializzata in cybersecurity, anche per Leonardo: «La via delle cooperazioni internazionali è l’unica possibile», afferma, Roberto Cingolani, ceo della ex Finmeccanica, che ha fatturato 15,2 miliardi nel 2023. Di ambiziosi progetti internazionali è pieno il carnet del gruppo: dal Global Combat Air Programme con Gran Bretagna e Giappone per sviluppare il caccia di sesta generazione, fino all’alleanza strategica Knds per la produzione di carri armati firmata in dicembre con Francia e Germania. Cingolani taglia corto: «Dobbiamo mettere da parte le divisioni in Europa perché qui l’unico nemico da battere è Putin».