Passione per l’avventura. E capacità di cogliere gli abissi dell’uomo. L'autore spagnolo, testimone di molti conflitti, torna alla battaglia dell’Ebro. E si racconta a Dedica

«Io non ho un’ideologia, ho una biblioteca», ama ripetere Arturo Pérez-Reverte. Così, questa conversazione si svolge circondati dai suoi trentaduemila libri disposti su tre piani, da carte nautiche, da armi disinnescate della Guerra Civile spagnola che gli sono servite, nel suo solito e maniacale processo di documentazione, per provare in prima persona cosa significasse correre con un pesante fucile mitragliatore nella battaglia dell’Ebro prima di scrivere “Linea di fuoco”, l’ultimo suo romanzo tradotto in italiano. Quella biblioteca, quegli oggetti, dicono tantissimo di un uomo e di uno scrittore fedele a sé stesso, che crede in virtù come i codici morali, il coraggio, la dignità, l’amicizia e la lealtà; un uomo e uno scrittore che crede, soprattutto, nella «lucidità» che gli deriva dalle tantissime letture e dalle sue intense esperienze di vita. Ma com’è successo che quel ragazzino nato a Cartagena nel 1951 si sia trasformato nell’uomo incasellabile che Arturo Pérez-Reverte è adesso e sia diventato uno scrittore di enorme successo, con all’attivo decine di romanzi tradotti in una cinquantina di lingue?

 

«Sono cresciuto vicino al mare e in tre biblioteche: quella dei miei genitori, in cui c’era un po’ di tutto, quella di mio nonno paterno, piena di libri di autori greci e latini e di classici di ogni epoca, e quella di mia nonna materna, una donna molto avanzata per i suoi tempi, che si teneva aggiornata sulle novità del momento e amava molto i romanzi polizieschi. Così, il mio territorio letterario andava da Somerset Maugham a Stevenson e a Jules Verne, da Kafka ad Agata Christie, da Hemingway a Irving Wallace, da Conrad a Stefan Zweig… E poi c’erano i fumetti, tanti fumetti, e il cinema, tanto cinema, nelle sale fumose di quei tempi. Nella mia infanzia non c’era la televisione, l’ho conosciuta soltanto verso i dodici anni. Tutto questo ha via via dato vita a un mondo immaginativo molto potente, che mi faceva desiderare di essere come quei personaggi, quegli eroi che incontravo nei libri, nei fumetti, al cinema. Anche Javier Marías, del quale da adulto ero diventato amico, da piccolo leggeva molto, ma la differenza tra me e lui è che Marías fin da bambino voleva scrivere quei romanzi, io invece volevo viverli, incarnare i personaggi di cui leggevo. Insomma, ero un ragazzo molto immaginativo e tutti quei libri hanno creato un magma, una base molto potente, che poi mi ha spinto a partire per confermare se la vita vera era davvero così, per vivere le avventure di quei personaggi».

 

La copertina del libro "Linea di fuoco" (Rizzoli)

 

E così, giovanissimo, cercando di emulare i protagonisti dei romanzi che amavi, sei diventato un reporter di guerra…
«All’inizio, crudele come tutti i giovani, per me la guerra era la realizzazione dei miei sogni di avventura. Mi affascinava quel mondo di hotel, di viaggi, di belle donne, di pericolo, di adrenalina… È chiaro: non era la mia guerra. Io ero soltanto un turista del conflitto. Quando sono arrivato a Cipro, nel 1974, nella parte greca dell’isola, e affacciandomi dal mio albergo ho visto i paracadutisti turchi scendere giù dal cielo a un paio di centinaia di metri di distanza, ho afferrato la macchina fotografica e sono sceso contento, mi si leggeva l’allegria in faccia perché ero finalmente in una guerra vera, i miei sogni si materializzavano. Sono bastati pochi anni per farmi cambiare atteggiamento: ho cominciato a vedere i bambini morti, i bombardamenti israeliani in Libano, l’orrore, e soprattutto a partire dalla guerra in Eritrea il senso di avventura è scomparso e ho cominciato a provare compassione, empatia, solidarietà, dolore, rimorso… Sono diventato un reporter che credeva che con il suo lavoro avrebbe aiutato a cambiare il mondo, o almeno a mitigare un poco il dolore e la sofferenza. Poi è arrivata la terza fase, con la guerra del Golfo e quella nei Balcani, quando mi sono reso conto che il mio lavoro non sarebbe servito a migliorare nulla. Non ci credevo più, ma lo facevo da professionista, nel modo migliore possibile. Infine, mi sono stancato che mi dicessero “oggi ci sono pochi morti nel tuo servizio”, oppure “oggi hai fatto vedere troppo sangue”, ed è stato allora che è apparsa la letteratura nella mia vita».

 

Cosa ti ha insegnato la guerra?
«Tutto, o quasi. Io sono ciò che la guerra ha fatto di me. Da testimone, ho imparato che la guerra è la condizione normale dell’uomo. A Srebrenica si ammazzavano bambini come ai tempi della Bibbia, io l’ho visto. La gente pensa che la guerra sia un essere umano normale che fa cose anormali, e si sbaglia: la guerra è un essere umano normale che fa cose normali, perché l’umanità ha sempre ucciso, violentato, sgozzato, solo che lo dimentichiamo o vogliamo dimenticarlo. La guerra è la concentrazione in un luogo e in un momento determinato di tutto ciò che l’uomo è capace di fare, nel bene e nel male. E la linea che separa il bene dal male è spesso molto sottile e vaga. Chi, in qualunque conflitto, dice di sapere con certezza chi sono i buoni e i cattivi si sbaglia o è in malafede. Siamo buoni o cattivi a seconda delle circostanze. Insomma, la guerra per me è stato come un master di intenso apprendistato alla vita. Soprattutto, mi ha spogliato dell’innocenza, mi ha fatto capire che l’essere umano è un perfetto figlio di puttana. Ci sono cose come la cultura, l’amore, i sentimenti che lo migliorano, lo addolciscono, ma l’essere umano è molto pericoloso. Il mondo è un posto molto pericoloso e ostile. Viviamo, tutti, i minuti prima dell’esecuzione. Si tratta soltanto di scegliere come trascorrerli. Se sai come stanno le cose e corri in libertà quei pochi metri prima che ti raggiunga lo sparo, la coscienza di ciò che sta per accadere fa sì che quei metri abbiano un senso meraviglioso. E questo è tutto. Credere che non moriremo ci rende peggiori. Così, con questa lucidità, con questo sguardo privo di innocenza, di bandiere, di patrie, datomi dalla guerra, scrivo i miei romanzi».

 

Soldati spagnoli a Teruel, in Aragona, pronti a partire per il fronte, nel 1936

 

“Linea di fuoco” è ambientato durante la Guerra Civile spagnola, nella battaglia dell’Ebro, e racconta la guerra per com’è vista da diversi contingenti delle due fazioni, con una intensità appassionante e una documentazione impeccabile. Ma una volta non avevi detto che a te la Guerra Civile non interessava come argomento di un romanzo?
«È vero: come materia narrativa in sé la Guerra Civile non mi interessa. L’ho usata come sfondo per scrivere la trilogia di Falcó e punto. Mi interessa invece raccontare gli esseri umani in momenti duri, laceranti, estremi, come le guerre. Tanto più in una guerra civile, in cui vengono a galla tutte le qualità delle persone, ma anche tutti i rancori tra gente che spesso si conosce bene: quello là mi ha rubato la ragazza, quell’altro si è preso la mia capra o il mio campo… Così la guerra diventa un pretesto per regolare conti. In più, se sei convinto di agire in nome di Dio, diventi capace di fare qualsiasi cosa, sicuro della tua impunità perché Dio ti protegge e ti giustifica. I veleni del mondo sono i nazionalismi e la religione. Nel caso della guerra civile spagnola, oggi nessuno, o quasi, mette più in dubbio che la ragione e la legalità fossero dalla parte della Repubblica, e non c’è bisogno di un romanzo per raccontarlo. Però, se guardi le guerre in prospettiva, con equanimità, la linea di confine tra buoni e cattivi ti appare meno netta. Perciò era importante un romanzo che scendesse davvero nelle trincee, che raccontasse come viveva, combatteva e moriva la gente comune, dall’una e dall’altra parte. Non c’era tanta differenza… E poi non bisogna dimenticare che mentre oggi sappiamo bene cosa furono il fascismo e il nazismo, all’epoca per molta gente rappresentavano una soluzione. Si sbagliavano politicamente, è chiaro; però le loro intenzioni erano oneste. Ecco, raccontare la guerra civile limitandosi ai fatti, da buon reporter, al di là di ogni contrapposizione manichea, nella sua complessità, con tutto il sangue, il sudore e le lacrime che implicava, ma anche con tutti gli slanci di coraggio e di lealtà, mi è sembrato importante. Quanto alla documentazione, sono contento perché nessuno dei tanti esperti della Guerra Civile che ci sono in Spagna ha potuto rimproverarmi il minimo errore, né nella ricostruzione della battaglia dell’Ebro, né nell’armamento dei soldati. Mi sono consentito una sola invenzione, quella del plotone femminile incaricato delle trasmissioni. All’epoca della battaglia dell’Ebro, la Repubblica aveva già ritirato dal fronte tutte le donne, relegandole ai soliti lavori in cucina o in infermeria. Un’ingiustizia storica che mi sono tolto lo sfizio di correggere, almeno in parte».

 

Dalla monografia Dedica a Arturo Pérez-Reverte ©Thesis Associazione Culturale