Clima e tribunali
Paolo Maddalena: «Contro l'inquinamento non serve una class action ma un'azione collettiva che chieda la fine del danno ambientale»
Anche in Italia i cittadini si uniscono per chiedere i danni alle amministrazioni che non riescono a ridurre i veleni che respiriamo. Ma secondo l'esperto una causa del genere non ha possibilità di successo. Ma si può ottenere da città, Regioni e Stato il ripristino di quel "bene comune" fondamentale che è l'aria
All’ambiente e agli strumenti legali che permettono di tutelarlo, Paolo Maddalena ha dedicato decenni di studi (in una carriera che lo ha portato a diventare vicepresidente della Corte Costituzionale) e una decina di volumi (da “Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela dell'ambiente” del 1985 a “Il diritto all'ambiente. Per un'ecologia politica del diritto” del 2020, passando per “Danno pubblico ambientale” e “Il territorio bene comune degli italiani”). Lo abbiamo interpellato in merito all’uso delle class action contro Stati e Comuni da parte di cittadini stanchi dell’ignavia delle amministrazioni pubbliche davanti al crescere dell’inquinamento: ne è risultato un affresco appassionato e dettagliato delle vie legali alla tutela ambientale, con la finalità non di incassare un risarcimento, ma di ripristinare una natura pulita non solo per noi stessi ma anche per le generazioni future.
Negli ultimi tempi si sono moltiplicati casi di attivisti che si uniscono iun class action contro le amministrazioni che non rispettano gli accordi sulla lotta al cambiamento climatico. Dopo Stati Uniti, Portogallo e Svizzera, queste cause collettive sono arrivate anche in Italia. Lei cosa ne pensa?
«Le class action sono nate negli Stati Uniti per la tutela di diritti soggettivi individuali. Nascono da una questione di efficienza: se ci sono tanticasi uguali di singoli che hanno richieste simili, invece di fare mille cause ne facciamo una sola. Ma è cosa ben diversa da quello che è il danno ambientale. La legge sul danno ambientale che abbiamo studiato in Italia - e io sono tra quelli che più ci hanno tenuto a questo aspetto - è proviene da quello che è chiamato civil law ma che deriva dal diritto romano: on si tratta di azioni di classe ma di un'azione popolare. Anche se in realtà un guaio enorme l'ha fatto il redattore del decreto legislativo, è il numero 152 del 2006, che ha concentrato tutto nelle mani del ministro, che era allora Pecoraro Scanio. Il testo unico della tutela dell'ambiente, che comprende la possibilità di azione contro il danno ambientale, viene esercitata dal ministero anche sul piano giudiziario, e non dai singoli».
Quindi in Italia non c'è la possibilità di un'azione collettiva?
«Il diritto alla partecipazione è un diritto costituzionale e non può essere negato. Soprattutto quandosi parla dell'aria, che è sicuramente un bene comune. Lo scrisse già Marciano, un giurista romano del terzo secolo d.C.: "Naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc, litora maris”, cioè sono beni comuni a tutti l'aria, le acque correnti e quelle dal mare con le sue coste. Già allora si parlava dell'uso corretto di questi beni ambientali: ma la grande levatura giuridica dei romani è fuori discussione... Per tutelare questi beni comuni era previsto un ordine del pretore, l'interdicta, oppure l'actio popularis, che è ripresa nella nostra Costituzione. Azione popolare significa che io difendo un bene comune perché sono comproprietario, e agisco nell'interesse mio e di tutti. Lo dice l'articolo due della Costituzione, "la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità". Anche la "proprietà pubblica" è nella Costituzione, all'articolo 42: oggi si pensa che esista solo la proprietà privata, ce lo fanno credere i nostri politici a cominciare da Mario Draghi e tutta la sfilza delle persone che lo hanno immediatamente preceduto e seguito fino ad oggi...».
E invece cos'è la proprietà pubblica?
«È talmente estesa che precede nella storia la proprietà privata. Per i romani viene prima la proprietà del popolo e poi la proprietà dei singoli, anzi di proprietà privata si è parlato solo agli inizi del primo secolo a.C. quando declinava la Repubblica e cominciava l'Impero, allora è nata l'idea del "dominium ex iure divisum" che ha delle connessioni con il diritto soggettivo italiano. La proprietà privata nello stesso articolo 42 della Costituzione è subordinata alla proprietà pubblica pubblica, deriva da essa. Il secondo comma dice che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, cioè dal proprietario pubblico: la legge è il popolo che è il proprietario di tutto. È dalla proprietà di tutti che deriva la proprietà privata».
E i cittadini possono unirsi per fare azioni collettive a protezione dei beni comuni?
«Anche questo è nella Costituzione: l'articolo 118 dice che i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale secondo il principio di sussidiarietà, cioè se il governo non si muove si può muovere il singolo cittadino. E oltre a questo l'articolo tre, cosa importantissima, impegna la Repubblica a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Quindi in questo quadro quello che è importante promuovere non è una class action ma un'azione popolare: perché l'aria è un bene di tutti e anche il danno è di tutti. Nella legge che preparai nel 1985, la 349 del 1986, che prevede l'istituzione del ministero dell'ambiente e le norme sul danno ambientale si parlava proprio di risarcimento del danno ambientale. Ma il fine da raggiungere non è avere l'equivalente in denaro di ciò che abbiamo perso ma il ripristino dell'ambiente».
Quindi il calcolo di un possibile risarcimento di 36mila euro a persona, di cui si legge sul sito che propone la class action agli abitanti delle città italiane più inquinate, è infondato?
«Sì è una richiesta infondata, ci vuole una malattia specifica e un calcolo delle spese e del danno biologico - la pecunia doloris, dicevano i romani - calcolati caso per caso. Si deve dimostrare che tante persone hanno avuto la stessa malattia, sono rimaste danneggiate - e si deve dimostrare il nesso di causalità - e poi si deve quantificare il danno. La class action è cosa ben diversa dall'azione popolare, è molto meno nobile. E in questo caso, in Italia, non funzionerebbe nemmeno».