Dal Montana alla Svizzera. Fino all’Italia. Gruppi di attivisti fanno causa agli Stati e ai Comuni per i danni generati dalle sostanze tossiche che respiriamo tutti i giorni. Con la minaccia dei risarcimenti

Più che il dolor poté il digiuno, più che l’ideale può il materiale, più che il senso del dovere potranno i soldi: o almeno così sperano tanti cittadini, stanchi di aspettare che politici e amministratori pubblici si facciano carico della tutela dell’ambiente. Lasciate da parte pressioni, richieste e proteste di piazza, in tutto il mondo, sempre più spesso, chi vive in zone particolarmente inquinate cerca soddisfazione in tribunale. E oltre alla riduzione dell’inquinamento chiede soldi: perché il rischio di un esborso esorbitante potrebbe spingere le amministrazioni pubbliche a prendere quelle decisioni drastiche che migliorerebbero la vita dei cittadini calpestando però il quieto vivere di industrie, aziende e altri grandi inquinatori.

 

Da Zurigo a Lisbona, dal Montana alla Francia, la tendenza a portare le amministrazioni pubbliche in tribunale sta facendo scuola. E arriva anche in Italia. Tra i precursori ci sono le “Anziane per il clima”: un gruppo di oltre duemila donne svizzere – età media dichiarata, 73 anni – che hanno denunciato il loro Paese davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). La colpa? Non avere fatto abbastanza per combattere l’inquinamento e le sue conseguenze sul cambiamento climatico. Una crisi globale che, secondo le attiviste, colpisce per primi gli anziani (di cui fanno parte loro stesse), costretti al ruolo di «canarino della miniera»: l’essere che in caso di fuga di gas era destinato a morire per primo, avvertendo i minatori del pericolo.

 

Alla base del ricorso svizzero ci sono i dati sull’aumento – soprattutto tra gli anziani, appunto – della mortalità per il caldo crescente: un problema che, certamente, non riguarda solo la Svizzera. L’esito di questa causa potrebbe riflettersi su altri procedimenti in corso alla Corte di Strasburgo. Da una parte, il ricorso presentato anni fa da Damien Carême, sindaco ecologista di Grande-Synthe, un Comune in Normandia particolarmente esposto all’aumento del livello dell’oceano causato dallo scioglimento dei ghiacci. Dall’altra, il recente ricorso di giovanissimi portoghesi (c’è anche una bambina di sei anni) che accusano 32 Stati europei (i 27 dell’Ue più Gran Bretagna, Norvegia, Russia Svizzera e Turchia) di non combattere i cambiamenti climatici con la decisione richiesta dall’Accordo di Parigi del 2015. In questo caso, i ricorrenti hanno segnalato conseguenze di cui soffrono (dall’asma alla dermatite, fino all’ecoansia).

Clima e tribunali
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15-03-2024

Eppure, un aspetto importante di tali iniziative è che la causa non è basata su singoli casi di malattie, né sull’inquinamento prodotto da uno specifico impianto industriale, ma su un generico danno ai diritti umani dei cittadini che abitano in zone particolarmente inquinate. Non si tratta quindi di nuove Erin Brockovich, l’attivista che lottò contro l’inquinamento dell’acqua da parte di un’azienda, resa nota dal film con Julia Roberts. E nemmeno di altre Ella, la bambina inglese morta di asma, il cui decesso è stato finora l’unico direttamente collegato dai giudici a una determinata fonte di inquinamento atmosferico (il traffico sulla South Circular di Londra). In questa nuova ondata di class action, invece, un gruppo di cittadini si mette insieme contro un danno collettivo che è molto probabile – visti i dati sull’inquinamento e gli studi sulle malattie che le sostanze tossiche possono provocare – ma non accertato caso per caso.

 

Se i procedimenti europei sono in corso, negli Stati Uniti un caso simile è arrivato a una prima sentenza: e hanno vinto i cittadini. È successo l’estate scorsa nel Montana, uno dei tre Stati americani che prevedono nella Costituzione il diritto a un ambiente sano. I giudici hanno accolto il ricorso di un gruppo di giovani ambientalisti, stabilendo che alcune recenti norme per l’estrazione di gas e di petrolio sono troppo permissive e quindi infrangono il loro diritto a vivere in un ambiente non inquinato.I tribunali hanno i loro tempi, ma in tutto il mondo gli ambientalisti stanno con il fiato sospeso, sperando in sentenze favorevoli che spianino il terreno per le altre cause in corso.

 

E qui arriva l’Italia. Si parla da mesi di possibili class action contro le amministrazioni delle città più inquinate: da Milano a Napoli, da Torino a Frosinone, che stando in una zona industriale ha guadagnato, nell’ultimo rapporto “Mal’Aria” di Legambiente, il non invidiabile titolo di città più inquinata del Paese. A proporre l’azione di gruppo è il network legale Consulcesi. Iscriversi costa 350 euro, che però saranno recuperati con gli interessi in caso di vittoria, visto che la richiesta di indennizzo arriva a «36 mila euro di risarcimento per ogni anno vissuto in un Comune inquinato che non abbia rispettato i parametri imposti dalla direttiva europea».

 

A chi guida Stati, regioni e città il solo rischio di dover pagare indennizzi simili provoca un brivido. Ma le cause sono fondate? Il giurista Paolo Maddalena, che alle leggi per la tutela dell’ambiente ha dedicato una vita e diversi libri (“Il territorio bene comune degli italiani”, “Il diritto all’ambiente”), traccia un quadro storico lungo e appassionato. È vero che l’aria è un bene comune – lo diceva già Marciano nel II secolo dopo Cristo – è vero che i cittadini possono riunirsi per sopperire alle mancanze del legislatore ed è vero che l’Italia ha una legge sul danno ambientale a cui lo stesso Maddalena ha lavorato. Tutto questo è vero, ma «la class action è cosa diversa. Ci deve essere un danno personale, dimostrato e quantificato caso per caso». Un parere che per i sindaci di Roma, Milano o Frosinone sarà una boccata d’aria. Ma d’aria avvelenata.