Usa verso il voto
Le ricette economiche di Joe Biden e Donald Trump non potrebbero essere più diverse
Tasse, interventi pubblici, transizione ecologica. Le soluzioni dei due candidati divergono completamente. Resta da capire quanto peseranno nelle scelte degli elettori
Sono un capitalista, amico. Guadagna pure tutti i soldi che vuoi ma comincia a pagare la tua giusta quota di tasse», dice Joe Biden intervistato dalla Nbc. «Lo Stato invade ogni aspetto della nostra esistenza ed è vorace oltre ogni misura: le tasse sono da abbattere», ringhia nei suoi comizi Donald Trump. Gli schieramenti sono ormai delineati e mai i programmi economici sono stati più opposti fra di loro come quelli dei due candidati alle elezioni americane del 5 novembre. Trump ripete in ogni angolo del Paese i suoi cavalli di battaglia: le riduzioni d’imposta per le grandi corporation e i super-ricchi, le aggressive politiche di deregolamentazione che spaziano dal settore finanziario a quello energetico e ambientale (ha definito «una bufala» il cambiamento climatico e preannunciato il liberi tutti per le operazioni petrolifere) e ancora le politiche commerciali protezioniste, insomma tutto quello che può favorire imprese e lavoratori statunitensi a scapito della concorrenza internazionale, con buona pace dell’integrazione occidentale che vede come il fumo negli occhi.
Isolazionista in politica estera (è sempre convinto dell’allentamento dell’ombrello protettivo Nato), Trump lo è ancora di più in economia. L’importante è l’insegna Maga, Make America Great Again, lo slogan ossessivamente ripetuto in milioni di cappellini, magliette, tazze, asciugamani e quant’altra paccottiglia si possa immaginare (rigorosamente tutta made in China). Ma l’attuale presidente, finito non si sa come al ruolo di inseguitore (gli ultimi sondaggi lo danno sei-sette punti dietro lo sfidante repubblicano che è riuscito perfino a tesaurizzare i suoi infamanti processi), non sembra scomporsi. Ha affidato istituzionalmente al discorso sullo Stato dell’Unione di giovedì 7 marzo, dedicato per quattro quinti alle tematiche economiche, la disamina minuziosa della sua visione, che è diametralmente contraria a quella del tycoon newyorkese. Le tasse, dice Biden, vanno alzate cominciando dalle corporation (dall’attuale 21 al 28% dei profitti), aumentando dall’1 al 4% l’imposta sul riacquisto di azioni proprie ed eliminando le agevolazioni fiscali ai manager delle grandi imprese. Quanto alle imposte sulle persone fisiche, spicca nei programmi di Biden una tassa patrimoniale del 25% sul reddito annuo di chi detiene una fortuna personale (azioni, case, titoli) superiore ai 100 milioni di dollari (in America sono tanti). Non è l’unico provvedimento a echeggiare un’analoga discussione in corso da decenni in Italia: c’è anche la questione, che pure Biden si è impegnato a risolvere, delle rendite finanziarie, tassate – a parità di introiti – molto meno dei redditi da lavoro. A completare il tutto, il presidente promette una generosa rimodulazione delle imposte sulle persone fisiche per i redditi più bassi.
Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle, in entrambi i casi. Due formule opposte che promettono tutte e due di risolvere le distorsioni esistenti: la scarsa valorizzazione dei talenti secondo Trump, le diseguaglianze secondo Biden. Per inciso, anche al di fuori dell’economia, su temi come i migranti o l’aborto, i due candidati hanno visioni altrettanto diverse. Un dato a suo modo confortante è che man mano che si va avanti nella lunga campagna elettorale, peraltro già entrata nel vivo a otto mesi dalle elezioni, sempre più l’attenzione si concentra sul merito dei temi economici e si allenta la character assassination («vecchio rimbambito», «avanzo di galera») che ha caratterizzato la stagione delle primarie, che si chiuderà solo il 4 giugno in New Mexico e South Dakota ma i cui risultati sono ormai acquisiti su entrambi i fronti.
«It’s the economy, stupid», diceva Bill Clinton nella sua seconda vincente campagna elettorale in cui cercava, alla fine riuscendoci visto che è stato rieletto, di valorizzare i favorevoli risultati della sua prima presidenza (1993-1997) in cui gli Stati Uniti hanno vissuto uno dei più lunghi periodi di pace e prosperità economica di sempre. L’inventore della famosa espressione fu Robert Wescott, capo dei consiglieri economici della Casa Bianca nel periodo finale del primo mandato di Clinton. «Bisogna riconoscere che le condizioni sono profondamente cambiate da allora, pensate solo al ruolo della Cina, per non parlare delle guerre in corso», dice lo stesso Wescott in collegamento Zoom dai luminosi uffici della Keybridge, la società di ricerca economica che ha fondato a Washington. «Però sono convinto che un forte messaggio economico, basato sugli stessi nostri presupposti di allora – meno tasse per i meno abbienti, ampliamento dell’assistenza sanitaria, disciplina di bilancio finanziata con le maggiori tasse sui ricchi, rinnovata attenzione all’ambiente (il vice di Clinton, Al Gore, vinse il Nobel per i suoi allarmi sul riscaldamento globale, ndr) – avrà un’analoga presa sull’opinione pubblica e infine garantirà il successo alle urne».
Mai come in quest’occasione i temi economici si intrecciano con quelli geopolitici. «Trump, già dalla prima presidenza, ha dichiarato una vera e propria guerra commerciale alla Cina con dazi del 25% su una lunga serie di importazioni, e ora minaccia di alzare le tariffe al 60 e anche più per cento su prodotti quali i semiconduttori, le auto elettriche, la siderurgia, l’elettronica, fino ai medicinali», spiega Moreno Bertoldi, una lunga esperienza quale capo della sezione economica nella rappresentanza dell’Ue a Washington, oggi consulente dell’Ispi. «A scanso di equivoci – puntualizza Bertoldi – Trump ha assicurato alla controparte che i dazi li applicherà anche se i prodotti cinesi saranno assemblati in Paesi terzi come il Messico, dove le case auto di Pechino stanno costruendo diversi stabilimenti. Quanto all’Europa, il possibile nuovo inquilino della Casa Bianca promette dazi del 10% praticamente su tutto». Perché tanto accanimento? «Il motivo è sempre lo stesso: Trump è sicuro che questi prodotti godano in patria di privilegi, sussidi, aiuti di Stato e insomma facciano concorrenza sleale. Il motivo vero è più semplice: vuole ridurre al minimo le importazioni americane, punto e basta». Peraltro, la pratica dell’incentivazione industriale è entrata di prepotenza anche nell’economia americana, e qui sta il corto circuito che Trump, se eletto, sarà chiamato a risolvere.
Sulla Cina in ogni caso Biden, che non ha mai rimosso i dazi al 25% stabiliti da Trump, sta cercando una via più dialogante e ha incontrato Xi Jinping nel novembre 2023 (incontro preparato con minuzia e incontri segreti degni di Henry Kissinger dall’attuale capo della sicurezza nazionale Jake Sullivan), alla ricerca per quanto possibile di una nuova distensione: «Non è estraneo il tentativo di evitare che Pechino appoggi la Russia nella guerra più di quanto sta già facendo non aderendo alle sanzioni», puntualizza Stefano Silvestri, consulente dell’Istituto Affari Internazionali. «Ma poi a ben guardare in economia l’America è diventata più “cinese”, o più “socialista” come dicono i conservatori, negli anni di Biden». Sta di fatto, come si diceva, che sussidi e agevolazioni a carico dell’erario, entrati in scena con il Covid, sono poi diventati il marchio dell’attuale amministrazione: per difendersi dalla crisi pandemica l’amministrazione ha distribuito fra il 2021 e il 2022 aiuti diretti a imprese e famiglie (con tanto di assegni spediti a casa) per 1.900 miliardi di dollari. Al punto che i consumatori americani hanno per la prima volta messo da parte risparmi che, finita la pandemia, si sono trasformati in una valanga di acquisti e quindi inevitabilmente nella più alta inflazione da 40 anni (fino al 9,1% nel giugno 2022), con i conseguenti aumenti degli interessi a livelli record: il tasso di riferimento della Fed è oggi del 5,25-5,5%. Ora l’inflazione sta rientrando (siamo al 3,2% anno su anno in febbraio) e si attende con trepidazione l’inizio dei ribassi dei tassi, che potrebbe coincidere con le elezioni: «Le carte dell’economia saranno sparigliate, ma non è chiaro quale dei due contendenti potrà trarne vantaggio, visto che i mercati hanno già scontato i ribassi», riflette Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica. «L’unica certezza è che Trump ha detto apertamente di non fidarsi di Jerome Powell, capo della Federal Reserve, e che lo manderà volentieri a casa».
C’è poi, in pieno svolgimento la serie senza precedenti di programmi di investimenti pubblici e aiuti alle industrie. «Build back better» era il motto della campagna presidenziale di Biden nel 2020. «Finish the job» è quello di oggi, che cerca di delineare un quadro complessivo più solido, una «modern supply side economic» come la chiama la segretaria al Tesoro, Janet Yellen. «Il piano per le infrastrutture, quello per i semiconduttori che sta finanziando investimenti in America perfino delle più importanti imprese hi-tech di Taiwan e Sud Corea, ma soprattutto l’Inflation Reduction Act, hanno messo in campo finora più di 500 miliardi di dollari di sussidi, ma essendo fondi “aperti” con gettata decennale (sono stati lanciati fra il 2021 e il 2022, ndr) non è escluso che nei prossimi anni si arrivi al trilione», spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics e partner con Nouriel Roubini di un think tank transatlantico, Rosa & Roubini Associates. «Trump si è sempre detto scettico sull’efficacia di questo e di altri interventi pubblici, ma non è chiaro se e come eventualmente ostacolerebbe o addirittura cancellerebbe i programmi». Il nodo, aggiunge Rosa, «è nella natura stessa degli incentivi: sono rivolti anche alle imprese europee, è vero (quelle cinesi sono escluse per questioni di sicurezza nazionale, ndr), ma qui sta il punto interrogativo che riguarda Trump: è coerente con il suo isolazionismo finanziare imprese europee con i soldi del contribuente americano? È vero che fanno l’America più grande e potente, però attribuiscono un indubbio vantaggio alle aziende straniere».
Risultato, i progetti internazionali finanziati con l’Ira sono in stallo e lo resteranno certamente fino alle elezioni. Il vero problema, ricorda ancora Silvestri, sta però «nella più totale imprevedibilità del candidato repubblicano». La scommessa è tutta qui: se Trump sarà davvero «il singolo avvenimento più catastrofico per la crescita mondiale del 2024» come profetizza Roubini nel suo ultimo libro “Megathreats”, oppure se miracolosamente scenderà a più miti consigli, come ha fatto per esempio durante la pandemia: all’inizio era no-vax convinto, poi si è preso il Covid e ha trascorso 24 ore in rianimazione, dopodiché è diventato l’apologeta numero uno dell’importanza dei vaccini. Con la beffa che ora rischia di creare spazi per Robert Kennedy Jr., candidato indipendente che sta conducendo una campagna tutta all’insegna del no vax (e di una serie di altri no distribuiti a destra e a manca). Per inciso, i no-vax in un Paese che ha avuto 1,3 milioni di morti per il Covid, rappresentano il 30% della popolazione. Insomma, un Kennedy (è figlio del senatore assassinato a Los Angeles nel 1968) che sorpassa a destra il più reazionario dei repubblicani: il mondo alla rovescia.