La vittoria di Alessandra Todde è il primo argine a Giorgia Meloni. Come fu quella di Bonaccini nell'Emilia-Romagna nel 2020, contro Salvini. Ma instaura una concorrenza inedita. E stabilisce un precedente indigesto. Soprattutto per il leader M5S

La fanga e le coccarde. Gli ultimi della Terra e i primi. Il silenzio e le fanfare. La pioggia e i Palazzi. Per capire il futuro, cosa accadrà e quale sapore avranno le prossime sfide, dall’Abruzzo all’Europa, passando per Piemonte e Basilicata, fino all’orizzonte della riforma presidenzialista, e su quali elementi si regge la vittoria del centrosinistra in Sardegna – è la prima volta che strappa una Regione alla destra dopo quasi nove anni – bisogna tornare al giorno prima dei risultati. Alla domenica del voto. Agli stili opposti di Elly Schlein e Giorgia Meloni. Alle loro coordinate geografiche, alle loro costellazioni. Nel weekend prima della chiusura delle urne, la premier ha presieduto il G7 da Kiev nella prima riunione della guida italiana: accreditamento internazionale, passerella con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, firma di accordo, viaggio in treno con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il primo ministro canadese Justin Trudeau e il belga Alexander De Croo.

 

Nelle stesse ore la segretaria del Pd ha voluto essere sulla spiaggia di Steccato di Cutro e poi in corteo a Crotone, a un anno dalla strage in cui a un passo dall’attracco morirono 94 persone, 35 bambini: ha deposto la corona di gerbere accanto alla croce di legno sulla spiaggia, parlato con Gol Agha Jamshidi, afgano che nel naufragio ha perso il cugino e i nipoti, con il pescatore Vincenzo Luciano, che fu il primo a soccorrere i sopravvissuti, con il farmacista Salvatore Frontera, segretario del circolo Pd locale, guardato le facce ancora sotto shock, le immagini di quell’alba di morte, chiesto verità e giustizia per quella strage. Sotto una pioggia implacabile, che ha bagnato tutti quelli che c’erano, nessuno dei quali membro del governo, non un Piantedosi ma nemmeno un Mantovano, ancora una volta, come un anno fa. Zuppi ancora i vestiti il giorno dopo, quando con lentezza esasperante, al ritmo di un inspiegabile contagocce ottocentesco, hanno cominciato a uscire i risultati del voto della Sardegna.

 

Due stili opposti, certamente. E strategie opposte. Nella scelta dei simboli, nell’atteggiamento con gli alleati. Nella campagna elettorale: il teatrale e lungo comizio stile Marchesa del Grillo della premier per la serata di chiusura a Cagliari, il 21 febbraio, con le vocine, le lamentele, le imitazioni, ad accusare i Poteri e i Palazzi come se fosse ancora all’opposizione, e non al governo ormai da 16 mesi; con tutti i segnali di un distacco dalla realtà che è una delle malattie fisiologiche di chiunque si installi a Palazzo Chigi, ma da cui si immaginava sbagliando che la leader di FdI, dopo aver salito lo scalone autoproclamandosi «underdog», potesse rivelarsi più di altri immune.

 

All’estremo opposto, la scelta elettorale di Elly Schlein di girare per province povere come quella di Carbonia, paesini dell’Oristanese, cooperative di pescatori, periferie. Senza fare la primadonna – è stata vista appuntarsi anche passaggi del comizio di Pierluigi Bersani – a sobbarcarsi il malcontento della gente, oltreché gli applausi, come è accaduto con la signora che ha lavorato per trent’anni a 500 euro al mese e che l’ha apostrofata al mercato di San Benedetto a Cagliari. Gli stessi parametri e gap che si ritrovano poi nella campagna elettorale della prossima sfida in calendario: quella per l’Abruzzo (10 marzo) dove, come ha raccontato L’Espresso, l’una per sostenere l’uscente Marco Marsilio (che, raccontano in FdI, si rifugiò in Abruzzo perché da rampelliano non avrebbe avuto spazio a Roma) si fa fotografare da lontano con le fasce tricolore dei sindaci e il taglio di nastri per celebrazioni tipo il World Skate Games a Montesilvano, l’altra con il campolarghista civico Luciano D’Amico gira a tappeto per le aree interne, i coltivatori di carote e patate, gli ospedali declassati, le scuole vittime del dimensionamento.

 

«Arroganza» è l’accusa che più di frequente dopo il voto sardo è piombata da destra su Giorgia Meloni, da parte non solo di politici forzisti e leghisti – che forse non vedevano l’ora di vederla inciampare – ma anche di commentatori piuttosto ascoltati nel centrodestra. È comparsa anche sulla prima pagina del Giornale, quotidiano ora diretto da Alessandro Sallusti, coautore dell’ultimo libro della premier (“La versione di Giorgia”, Rizzoli), dove è stato citato anche il governatore del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, il quale sempre a proposito della premier ha parlato addirittura di «cesaropapismo», non a caso due degenerazioni del potere tipicamente romane. Non è stata una grande idea quella della premier di sostituire a forza il candidato uscente Christian Solinas, l’ultimo arrivato nella classifica dei governatori del Sole 24 Ore, con Paolo Truzzu, terzultimo arrivato nella classifica dei sindaci. Soprattutto perché fatta nel nome di un amichettismo di lotta (prima) e di governo (poi), tanto negato da Meloni quanto confermato dai fatti: ancora una volta, scegliendo un antico compagno nei giovani missino-aennini, la leader di FdI non ha saputo andare oltre la cerchia dei famigli, o al massimo dei famigli dei famigli, insomma della propria tribù.

 

Non è un unicum: esiste infatti l’autorevole precedente romano di Enrico Michetti. L’avvocato amministrativista, tribuno nella locale “Radio Radio”, il mitologico autore di supercazzole ingiustamente dimenticate, dai «meravijosi» archi romani alle dichiarazioni d’amore per le norme, i commi, i «segmenti procedimentali», la burocrazia che – assicurò – «respira», perché «il corretto esercizio del potere vien rappresentato nel momento in cui si crea un canale osmotico, perfettamente irrorato, tra colui che emana il provvedimento e i destinatari del provvedimento». L’uomo che inspiegabilmente fu chiamato da Fratelli d’Italia a correre per la poltrona di sindaco di Roma nell’autunno del 2021, e che ovviamente la perse. Un’altra scelta clamorosamente sbagliata, voluta in quel caso da Arianna Meloni, la sorella allora nell’ombra ma influente non meno di adesso, che mutò in sconfitta una vittoria annunciata.

 

Allora come ora, con una torsione però appunto di arroganza, Meloni ha pensato di poter fare come Silvio Berlusconi, che nel 2009 strappò la Sardegna a un altro sconfitto di oggi, Renato Soru, candidando il perfetto sconosciuto Ugo Cappellacci, che vinse grazie al faccione del Cavaliere. Ecco il faccione di Meloni, i manifesti «forte e fiera» che hanno tappezzato Cagliari non hanno funzionato. Giorgia non è Silvio. Non lo era per Roma, non lo è per la Sardegna.

 

Ha funzionato ed è una indicazione per il futuro Alessandra Todde. Grillina della fazione più vicina ai dem, modello Roberto Fico, con una fisionomia piuttosto schleiniana. Donna, expat, ingegnera, una che è a suo agio nel mondo e che sa le lingue, a differenza di Giuseppe Conte che l’ha sin qui tiepidamente sostenuta (preparandosi in caso di sconfitta a dare la colpa al Pd diviso) e che ora dovrà decidere se considerare la sua ex viceministra una risorsa, anche a livello nazionale, oppure un impiccio per la propria leadership, finora costruita sul presupposto di essere incontrastata.

 

Schlein ha scelto dall’inizio la prima delle due opzioni: appoggiando Todde senza incertezze, come ha fatto il Pd locale, evitando di attribuire un eccessivo peso alla candidatura di disturbo di Soru, fregandosene in sostanza del cartellino delle appartenenze, Schlein ha anche stavolta affermato una leadership sottile, agile – duttilità confusa a volte per remissività in quanto fuori dai parametri testosteronici della politica italiana – che non si vede arrivare ma si ritrova dentro le urne. Accadde un anno fa alle primarie con la conquista a sorpresa della guida del partito, accade adesso con una elezione regionale che si può paragonare a quella di Stefano Bonaccini alla guida dell’Emilia-Romagna nel 2019. L’innalzamento di un argine, che finisce per fermare l’avanzare della destra: in quel caso Salvini, oggi (forse) Meloni.

 

Una vittoria che pone con urgenza la domanda circa la strutturazione di un’alleanza nel centrosinistra. Ma c’è una differenza, rispetto al 2019, rappresentata bene dal risultato delle liste nel voto sardo: il Pd è il primo partito in Sardegna (13,8 per cento, un filo sopra FdI al 13,6) e quasi doppia i Cinque Stelle (7,8 per cento). Numeri che, se si ripeteranno, inclinano verso un certo tipo di risposta circa la questione della leadership agitata in questi mesi: difficile immaginare, come alcuni pure fanno, che possa ripetersi la parabola di Conte «punto di riferimento fortissimo dei progressisti», come nel 2019 cioè ai tempi in cui i Cinque Stelle avevano più voti del Pd.

 

Una questione ancora tutta da affrontare e che non sarà priva di spine: anche a destra, d’altra parte, la leadership di Meloni è stata conquistata a suon di voti, non certo perché Matteo Salvini o Silvio Berlusconi fossero volenterosi di cederla, ma perché la prevalenza di Fratelli d’Italia era divenuta incontestabile. A sinistra la situazione resta assai più complessa, come testimonia il finora mancato accordo in Basilicata e Piemonte, ma la vittoria in Sardegna ha suonato la sveglia, urge una risposta. Qualcuno, nella serata dello spoglio, quando a un certo punto il risultato pareva appeso ai voti di Selargius, 30 mila abitanti alle porte di Cagliari, ricordava gli usi dello sposalizio tradizionale selargino, che culmina nel momento in cui gli sposi vengono legati l’uno all’altro da una pesante catena di anelli d’argento. Ecco non pochi immaginano che la vittoria di Alessandra Todde abbia condannato Schlein e Conte a uno sposalizio modello Selargius: eppure già l’immagine da sola evoca una rigidità e una pesantezza che sono il contrario della politica, di questi tempi specialmente.