L’idillio in favore di telecamere cela quanto siano lontani. Con il leghista che sbuffa, ma è costretto ad abbozzare

Meloni e Salvini fingono di andare d'accordo. Ma sono divisi su tutto

A vederli sembrano una coppia felice. «Il nostro rapporto è ottimo», assicura lui, spavaldo. E lei gli sorride, lo abbraccia, poggia persino la testa sulla sua spalla. «Bacio, bacio!», si sente gridare nell’aula di Montecitorio, mentre il flemmatico Antonio Tajani diventa addirittura romantico parlando di «love story». E così, davanti alle telecamere dei tg, ogni sera i portaparola governativi fanno finta di credere davvero che tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini tutto stia filando magnificamente: l’alleanza è solida, l’amicizia sincera, la solidarietà inscalfibile, la simpatia reciproca. Eppure persino i colonnelli meloniani ammettono che per la presidente del Consiglio il suo principale alleato, vicepremier e leader della Lega, è ormai la vera spina nel fianco. L’uomo che lei chiama «caro Matteo» è il “fattore M”, l’incognita più inquietante sul suo futuro prossimo, la bomba che può esplodere da un momento all’altro.

 

E infatti Salvini coglie puntualmente ogni occasione per affermare l’esatto opposto di quello che dichiara Meloni. Lei ha promesso i voti dei conservatori europei a Ursula von der Leyen? E lui si affretta a giurare che mai e poi mai quella tedesca che guida le consorterie di Bruxelles avrà il suo voto. Lei viene ricevuta con tutti gli onori da Joe Biden alla Casa Bianca? E lui si congratula subito con Donald Trump per la schiacciante vittoria alle primarie. Lei dice che Vladimir Putin è stato rieletto grazie a «elezioni farsa»? E lui si precipita a spiegare che «quando un popolo vota ha sempre ragione». Lei va al Senato a confermare l’appoggio italiano all’Ucraina? E lui non si presenta, lasciando che per lui parli quel posto vuoto sui banchi del governo, proprio alla destra della presidente del Consiglio.

 

Perché il capo leghista è ancora convinto che dovrebbe esserci seduto lui, su quella poltrona. Lui, che cinque anni fa sognava di chiedere agli italiani di dargli «pieni poteri», gasato dal clamoroso successo alle Europee, mentre oggi vede avvicinarsi il momento i cui si conteranno i voti degli italiani per il Parlamento di Strasburgo con lo stesso entusiasmo con cui un tacchino aspetta il pranzo di Natale. Ma il destino, che sa essere cinico e baro anche con la destra, ha voluto che il suo trionfale 34,3 per cento del 2019 si asciugasse drammaticamente, di scivolone in scivolone, fino a quel misero 8 per cento che gli concedono gli ultimi sondaggi, esattamente nello stesso arco di tempo in cui il partitino dell’amica-rivale diventava un partitone e si prendeva Palazzo Chigi.

 

Così gli tocca ingoiare un rospo dopo l’altro. Il siluramento del suo candidato in Sardegna. La bocciatura del terzo mandato per i governatori. L’invio di altre armi al nemico dell’amico Vladimir. E ogni volta a lui viene una gran voglia di rovesciare il tavolo, di gridare che allora lui se ne va, di avvertire che il governo ha le ore contate. Smoccola, sbuffa, impreca e tira calci nel vuoto, ma poi si ricorda cosa succederebbe se si aprissero di nuovo le urne per il Parlamento. Fa il conto di quanti deputati e di quanti senatori perderebbe in un colpo solo. E allora si morde la lingua, fa un respiro profondo, chiude gli occhi, conta fino a cento, prova il sorriso davanti allo specchio e poi esce in strada – dove lo aspettano ancora le telecamere che un tempo gli furono amiche – per ripetere che va tutto bene, anzi benissimo, non potrebbe andare meglio. Davanti al televisore del suo studio di Palazzo Chigi Meloni lo ascolta, soddisfatta. E puntualmente si chiede: fino a quando?

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