Governo Meloni

Un anno di salvinate: così Matteo Salvini è diventato capo dell’opposizione

di Gianfrancesco Turano   3 novembre 2023

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Matteo Salvini

Da vicepremier mette becco su tutto. Da ministro sogna ponti al Sud e finanzia opere al Nord. Da segretario di partito prende legnate a ogni elezione. Fenomenologia di un politico che alle Europee si gioca l'ultima chance

Matteo Salvini è uno e trino. Vicepremier, ministro delle infrastrutture e capo dell’unica vera opposizione al governo di centrodestra. Per non guastare il tre, numero perfetto, trascura un po’ la quarta carica, quella di leader di una Lega che lo aspetta al varco delle Europee del prossimo giugno dopo una serie di rovesci elettorali terrificanti. Solo quattro anni fa, e si trattava sempre del parlamento di Strasburgo, erano arrivati 9 milioni di voti pari al 34,2 per cento. Alle politiche del 2022 quasi tre quarti di quel consenso è stato bruciato con poco meno del 9 per cento fra Camera e Senato e 2,5 milioni di schede sbarrate sopra lo spadone di Alberto da Giussano. La settimana scorsa alle provinciali del Trentino-Alto Adige la tendenza al massimo ribasso si è confermata. A Trento il 27,1 per cento del 2018 si è più che dimezzato. A Bolzano, la scoppola è stata micidiale: dall’11 al 3 per cento. Anche la vittoria dell’amico Massimiliano Fedriga alle regionali friulane di aprile ha comportato un’emorragia a favore di Fdi.

 

Una disfatta europea toglierebbe la fascia dal braccio del Capitano, iscrittosi alla Lega a 17 anni nel 1990. Comunista padano ieri, oggi il segretario federale leghista è l’anello mancante fra l’Internazionale situazionista e la coazione allo show perseguita da Silvio Berlusconi. Dall’ex presidente del suo Milan Salvini ha preso l’abitudine di calibrare ogni uscita nello spettro che va dalla sparata incendiaria al predicozzo da buon padre di famiglia tradizional-creativa.

 

Conta poco che a quantificare l’effetto del messaggio sul consenso siano le rilevazioni prodotte dalla Bestia del redivivo Luca Morisi oppure un istinto per la politica affinato in trent’anni di pratica. Il maggiore lascito del Mago di Arcore è scolpito nel marmo: tutto è comunicazione. Contradditoria, paradossale, isterica, bugiarda, rassicurante o allarmistica. L’importante è dettare l’agenda ai media.

 

La differenza principale con il Cavaliere e con l’elettore leghista medio è che Salvini non è mai stato imprenditore, mai lavoratore autonomo o sotto padrone. Lo stipendio glielo ha sempre pagato la politica. Ma chi pensa che ciò equivalga a vivere in vacanza perenne non ha idea di quale sforzo richieda stare in scena senza sosta e occuparla a costo di sdraiarcisi per lungo dalla quinta di destra a quella di sinistra. Salvini corre ovunque. Le sue adorate sagre di paese sono quasi abbandonate per questioni dietetiche. Il Matteo Degustatore è solo un ricordo e le sue parti in commedia sono già fin troppe. «Ho perso otto chili, sono in forma, niente mirto e limoncello», diceva a settembre ed è stato fedele alla linea. Per il nuovo Salvini ci sono solo convegni, cantieri, riunioni e qualunque occasione garantisca il gettone di presenza sulla stampa o in tv.

 

La carica di vicepremier, che è stata conferita anche al molto più sedato Antonio Tajani, è la chiave d’accesso a ogni dossier della società dello spettacolo politico. Come il cattivo vicepreside delle scuole di una volta, il vicario di palazzo Chigi è sistematicamente il contraltare di Giorgia Meloni. Non che ci siano scontri diretti. La presidente non è famosa per lasciarsi maltrattare dai coniugi, effettivi o di coalizione. In compenso, il Capitano ha messo in ginocchio sui ceci molti dei suoi colleghi ministri. Ha litigato con Raffaele Fitto per i fondi del Pnrr e sull’estensione della Zes (zona economica speciale) dal Sud al resto d’Italia. Ha redarguito il tenero ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin, reo di essersi commosso di fronte a una studentessa preoccupata da quel cambiamento climatico che Salvini virilmente nega. Ha messo in difficoltà il compagno di partito Giancarlo Giorgetti (Mef) sugli extraprofitti delle banche, con crollo dei mercati annesso e conseguente ritirata strategica. In ambito Fdi, ha avuto a che dire con il ministro dello sport Andrea Abodi a proposito del presidente della Federcalcio Gabriele Gravina, che il vicepremier vorrebbe licenziare per lo scandalo scommesse e per lo scarso rendimento della nazionale.

 

A proposito di incursioni a destra nelle praterie meloniane, è uscito allo scoperto contro Guido Crosetto (Difesa) e a favore del generale dei parà Roberto Vannacci, senza allontanare del tutto l’ipotesi di candidarlo a Strasburgo. Ha incassato le critiche dei leghisti vecchia scuola Mario Borghezio e Roberto Castelli per la svolta meridionalista e reazionaria culminata nell’invito di Marine Le Pen al raduno di Pontida dello scorso settembre.

 

Abbandonato al suo destino Vladimir Putin e messo in disparte il suocero bancarottiere Denis Verdini, ha conservato i vecchi ronzini di battaglia: i condoni edilizi e fiscali, la difesa di balneari e tassisti, il nemico migrante clandestino e il suo dante causa, il cancelliere tedesco Olaf Scholz paragonato all’invasore nazista, l’attacco ai giudici dopo il filmato che riprende a una manifestazione sul caso Diciotti la giudice del tribunale di Catania Iolanda Apostolico. Si è rivisto anche il servizio militare che il giovane Salvini ha espletato in piazza Firenze, a un paio di chilometri dalla sua casa milanese. Deve essere stata durissima. Forse per questo vago risentimento vuole che il suo quartiere Baggio, zona di caserme dismesse, ospiti la prima centrale nucleare italiana da qui al 2030.

 

La rincorsa forsennata alla polemica quotidiana produce a volte paradossi. Il Capitano ha difeso la giunta trentina di centrodestra del Trentino nell’abbattimento degli orsi in esubero finché gli amministratori locali lo hanno pregato di farsi i fatti suoi. Sempre in area di confini alpini, ha criticato l’Austria per la chiusura del valico del Brennero, dopo i problemi ai trafori del Bianco e del Fréjus. Nel frattempo, gli organizzatori delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina, in ritardo con le infrastrutture di pertinenza del Mit, andavano con il berretto in mano a chiedere una pista da bob in prestito agli stessi nord-tirolesi.

 

Il codice stradale è un altro esempio di ribaltone in corsa. Prima Salvini ha sbertucciato il limite di 30 kmh in città per indispettire il sindaco di Milano Beppe Sala, poi ha rilanciato la velocità massima in autostrada a 150 kmh. Alla fine ci ha ripensato, visto che per i concessionari sono solo incidenti e guai in più. Allora ha deciso di spezzare le reni ai monopattini e promette di aiutare le compagnie assicurative con la polizza obbligatoria.

 

Il codice della strada è competenza del Salvini ministro, il ruolo dove si amministrano decine di miliardi di finanziamenti. La sua squadra parte dal viceministro Edoardo Rixi, leghista incaricato dei rapporti con le società pubbliche e di seguire i dossier del nord, dalla Gronda di Genova alle due Pedemontane in Lombardia e Veneto. Il numero due del ministero di Porta Pia è l’ufficiale di collegamento con il gruppo Fs. La maggiore stazione appaltante d’Italia ha i vertici in scadenza la prossima primavera con l’approvazione del bilancio 2023. Presidente e ad sono stati nominati dal governo Draghi, di cui la Lega faceva parte, e l’allineamento dei top manager con l’attuale esecutivo è totale nella speranza di una conferma. Un dirigente di lungo corso della holding commenta sardonico: «È il vecchio metodo democristiano. Li fa trottare, si prende i meriti e poi li caccia». Sulle Fs è persino aleggiato lo spettro della privatizzazione ma il ballon d’essai tipicamente salviniano si è sgonfiato presto, su suggerimento dei consigliori di Porta Pia.

 

Negli infiniti corridoi ministeriali, che illuminano a giorno una teoria di stanze spesso deserte, Alfredo Storto è un capo di gabinetto da manuale. Ex Tar del Lazio e della Campania, ha esordito nelle infrastrutture come responsabile dell’ufficio legislativo su chiamata del ministro grillino Danilo Toninelli. Era il giugno 2018, due mesi prima che crollasse il viadotto Morandi e che il governo giallo-verde si impelagasse nel tentativo fallito di revocare il contratto di concessione ad Aspi-Autostrade, poi passata dai Benetton a Cdp e oggi spinta da Salvini verso una nuova privatizzazione targata Sacyr-Dogliani.

 

La struttura tecnica di missione, creata vent’anni fa dal governo Berlusconi e riformata nel 2015 da Graziano Delrio con compiti di indirizzo strategico, è stata affidata a Elisabetta Pellegrini che dirigeva l’area infrastrutture della regione Veneto: in particolare la Pedemontana, opera-feticcio della giunta guidata dall’eterno rivale di Salvini, Luca Zaia.

 

Il capo della segreteria tecnica è il non ancora trentenne Francesco Lucianò, enfant prodige che già da otto anni lavora come funzionario parlamentare prima per il gruppo del defunto Gal (Grandi autonomie e libertà) e, dopo la laurea alla Luiss in scienze politiche, per gli onorevoli leghisti.

 

Lucianò, che nei report di Dagospia è segnalato come vicino all’uomo della Bestia Morisi e ha un reddito 2022 di 91 mila euro, è reggino. Non per questo il ministro intende delegargli il ponte sullo Stretto, l’arma mediatica preferita per conquistare voti a sud di Roma ladrona. Sul collegamento fra Sicilia e Calabria Salvini è l’uomo solo al comando. Dopo avere sottratto alla liquidazione la Stretto di Messina (Sdm), l’ex hater del Mezzogiorno ha condotto una battaglia epocale per strappare a Giorgetti un gruzzolo da piazzare in legge di bilancio. I 700 milioni di euro annunciati a fronte di un’opera da almeno 13 miliardi sono una mancetta che al massimo basterà a travestire da inaugurazione quattro buchi per terra fra Cannitello e Ganzirri appena prima delle Europee 2024.

 

«Il progetto definitivo va aggiornato e riapprovato», dice un tecnico del settore. «Deve avere tre requisiti: compatibilità ambientale, conformità urbanistica e vincolo preordinato agli espropri che si possono pubblicare con il progetto definitivo ma effettuare soltanto con il progetto esecutivo. Per aprire un vero cantiere da qui a giugno non ci sono i tempi».

 

Ma una cosa è credere al ponte, e non ci crede nessuno né fra i tecnici né fra i politici. Altro è confidare nei soldi che saranno sparsi a pioggia. Quelli sono veri. E l’illusionista Salvini sa quando la comunicazione va sostenuta coi danè, come direbbero nella sua Milano. Se nemmeno il grano porterà voti, il Capitano andrà alla resa dei conti. I nemici, interni ed esterni, non gli mancano di certo.