Editoriale
«Le stragi sul lavoro continuano. Ma la responsabilità non è mai di nessuno»
La scia di affidamenti, forniture di manodopera, appalti e subappalti parcellizza controlli e misure di prevenzione. Col risultato che è raro trovare un colpevole. E invertire la rotta nel senso della sicurezza e dell'impegno comune
C’erano 1.040 bare allineate dalla Uil a prendersi tutta piazza del Popolo martedì 19 marzo a Roma. Stavano lì a indicare, a un mese dalla strage dei cinque operai all’Esselunga di Firenze, il numero dei morti di lavoro nel 2023. Il dato è dell’Inail che conta gli infortuni letali per chi ha un’assicurazione. Molti di più, 1.485, aggiungendo quelli che, in grigio, in nero, con tutele incerte o nulle, nei cantieri, nelle officine, nei campi di tutto il Paese o recandosi al lavoro, sono andati incontro all’oblio senza diritti, sfuggendo anche alle statistiche pubbliche. Come ha ricordato Massimo Franchi sul Manifesto, c’è infatti qualcuno che il computo lo aggiorna tenendo memoria di chi altrimenti non avrebbe neppure un posto nell’elenco dei morti.
L’ex metalmeccanico Carlo Soricelli, beneventano trapiantato a Bologna, lo fa dal 1° gennaio 2008, in memoria dei 7 operai uccisi nell’esplosione della ThyssenKrupp di Torino il 6 dicembre 2007. Dedica gli anni della sua pensione alla denuncia di una strage che non conosce percentuali in negativo. E che lunedì 6 maggio a Casteldaccia, Palermo, ha allineato altri cinque corpi esanimi fuori dalla vasca sotterranea dell’impianto di sollevamento delle acque reflue della rete fognaria della municipalizzata. Calatisi a sei metri senza protezioni e avvelenati dall’idrogeno solforato.
Come sei dei sette uccisi nell’esplosione della turbina alla centrale di Suviana, del 9 aprile, anche quattro di loro, il quinto era un interinale, erano il socio e gli operai di un’impresa a contratto. Una delle tante, lungo la scia di affidamenti, forniture di manodopera, appalti e subappalti che ovunque parcellizzano sia la catena delle responsabilità sia quella della prevenzione, in un Paese perennemente inceppato nel sistema dei controlli. Che a giorni alterni, quando la commozione cessa e il lutto è solo quello di madri, mogli, padri e orfani, vengono pure messi in discussione. Perché semplificazione e deregulation piacciono a chi ha voce per recriminare l’asfissia delle norme che frenano lo sviluppo ma lasciano voragini di discrezionalità, spesso punteggiate di croci.
«Bisogna fermare la logica del subappalto a cascata», ha detto a Repubblica il 1° maggio il segretario della Cgil Maurizio Landini. Lo ha fatto lanciando, insieme con l’abolizione del jobs act, anche l’abrogazione degli articoli di legge che impediscono di estendere la responsabilità all’impresa committente nei casi di infortunio sul lavoro ai danni di lavoratori delle ditte in appalto. Una stretta che chiama al comune impegno nella vigilanza sia chi il lavoro lo affida sia chi poi lo svolge materialmente, magari flettendo sulla sicurezza per ragioni di budget esigui, di forsennate corse al ribasso, di profitto.
Qualcosa di molto più incisivo del non tanto né abbastanza, come la patente a punti sulla sicurezza che nei cantieri edili, solo in quelli, sarà in vigore dal 1° ottobre. E in attesa dei vincitori del concorso per 766 nuovi ispettori del lavoro che dovrebbero andare a rafforzare l’esigua pattuglia di controllori dalle armi spuntate. Siamo lontani «dall’impegno comune», invocato dal Capo dello Stato. E, stando sempre all’Inail, nei primi mesi dell’anno i morti sono 191. Il doppio secondo l’Osservatorio di Soricelli. E i 4.768 ispettori – quattro in provincia di Palermo – hanno verificato 21 mila imprese su 4 milioni e mezzo. Così, non c’è da stupirsi se un’azienda, dice Landini, «è controllata ogni 15 anni». O mai.
P.S. Dopo l’arresto per corruzione del presidente Giovanni Toti e le pressioni mafiose sul suo staff, il ministro dell’Interno manderà gli ispettori in Liguria come a Bari?