La valuta Usa guadagna spazio negli scambi e nelle riserve globali e non si vede il declino annunciato. Invece la moneta europea perde terreno rispetto agli anni scorsi e crescono le asiatiche

Altro che “de-dollarizzazione” dell’economia mondiale, come annunciano un giorno sì e l’altro pure i leader di mezzo mondo, dalla Russia alla Cina, dal Medio Oriente al Sudamerica. Il dollaro mantiene gagliardamente le sue posizioni come valuta di riferimento e perno delle riserve monetarie. Semmai il fenomeno del momento è la “de-eurizzazione”. La conferma più autorevole è arrivata da Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia, nel discorso per i 25 anni dell’euro il 24 gennaio 2024 a Riga, Lettonia: «Considerate le dimensioni delle economie sottostanti, l’euro sembra essere caratterizzato da un potenziale tuttora inespresso». E ha rimarcato che l’economia degli Stati Uniti e quella dell’area dell’euro hanno all’incirca la stessa dimensione ma il dollaro continua a contare molto di più. La valuta europea non “sfonda” né ha il successo che si spera ormai da un quarto di secolo. Anzi, arretra nelle preferenze dei grandi investitori visto che poco più di dieci anni fa valeva il 25% del “bacino” globale della ricchezza e oggi è scesa al 19,9%.

 

Frammentata all’interno, debole politicamente, senza un’unione bancaria né un mercato dei capitali compiuto, priva di uno “zoccolo” robusto di eurobond, l’Europa è in possesso di «un grado di integrazione finanziaria analogo a quello del 2003-2004, risultato certamente inferiore alle aspirazioni iniziali della Commissione europea», ha scandito Panetta. Di qui la progressiva perdita di rilevanza dell’euro. Nelle settimane successive a questo j’accuse una lunga serie di economisti ha confermato quest’ennesimo aspetto della debolezza dell’Europa, aggravato dal fatto che fra il 2017 e il 2024 gli Stati Uniti sono cresciuti di oltre il 17% contro il 7,6% dell’area euro. «L’Europa è più forte insieme, più ricca, conta di più», ha insistito Kristalina Georgieva, numero uno dell’Fmi, parlando il 27 aprile alla conferenza annuale di bilancio Ue a Bruxelles. Gli unici a non affrontare una questione così cruciale nella geopolitica globale sono i candidati alle imminenti elezioni per Strasburgo, presi da più spicciole questioni di politica interna.

 

Kristalina Georgieva

 

Il principale parametro che misura lo squilibrio l’ha ricordato Panetta nel suo speech: «Tra il 1999 e il 2022 la quota dei portafogli internazionali denominata in euro ha oscillato fra il 17 e il 25%. Il ruolo dominante del dollaro statunitense non è stato scalfito. Attualmente sono denominate in euro il 20% delle riserve valutarie a livello mondiale, a fronte di una quota del dollaro superiore di circa tre volte». Il paradosso è che in ogni angolo del pianeta sono forti i tentativi di abbattere il «privilegio esorbitante» del dollaro, come lo chiamava Valery Giscard d’Estaing negli anni ’60. Ma la moneta Usa resta dominante, sia come valuta di riserva da conservare nei forzieri sia come mezzo per le transazioni internazionali. «Oggi più che mai, motivi e strumenti per uscire dal dollaro per tanti Paesi non mancano, basti pensare al conflitto in Ucraina», riflette l’economista Innocenzo Cipolletta. «È essenziale in questi tempi di guerra per tanti Stati operare con monete diverse: l’Iran per esempio, o la stessa Russia, pur di vendere il petrolio e bypassare le sanzioni, non potendo usare il dollaro perché sono banditi dal sistema di transazioni bancarie Swift, lo vendono il primo in rubli a Mosca e la seconda in yuan, la valuta cinese, a Pechino».

 

La Cina, subito dopo lo scoppio della guerra, ha offerto ai russi di poter utilizzare il suo sistema dei pagamenti interbancari transfrontalieri alternativo allo Swift, il cosiddetto Cips. Poi Mosca si è costruita il suo di sistema, chiamato Spf2. Ma il dollaro è sempre lì con la schiena dritta, e l’unica vittima di questo tsunami è l’euro. Anche sotto il profilo dell’uso della valuta non come riserva ma per le compravendite internazionali, emerge la marginalizzazione dell’euro. Per esempio, i cinesi regolano ormai la maggior parte delle transazioni (dal petrolio russo ai finanziamenti ai Paesi africani) in yuan. Negli ultimi tre anni è raddoppiata la quota degli scambi commerciali effettuata con la valuta cinese, e alla fine del 2023 lo yuan è divenuto la seconda valuta più utilizzata per le transazioni, scavalcando l’euro. Quanto alle riserve, lo yuan è raddoppiato dall’1,08% del 2016 al 2,29% del 2023. «Pur in forte aumento, sono sempre aree valutarie che non si possono considerare alternative al dollaro – spiega Angelo Baglioni, economista della Cattolica – e forse non saranno neanche in grado di andare oltre l’attuale drammatica contingenza». Passata la guerra, la quota dello yuan potrebbe tornare a diminuire. «La sacrosanta alleanza dell’Europa con gli Usa viene usata dal fronte avverso, anche da chi si dice neutrale come la Cina, come motivo per stare alla larga dall’euro», aggiunge Baglioni.

 

Fabio Panetta

 

Eppure, all’inizio l’euro sembrava proiettato verso i più fulgidi successi. Nel suo primo anno di vita, appunto il 1999, grazie al retaggio positivo del marco e in misura minore del franco, salì subito al secondo posto fra le valute di riserva detenute da banche centrali e grandi investitori, con il 18,9%. Il dollaro a quel punto deteneva il 71,8%, ed erano ancora forti la sterlina, lo yen e il franco svizzero. Poi l’euro è progressivamente salito fino ad arrivare nel 2006 al 25% e al 27,9% nel 2009, togliendo quote a tutti gli altri a partire dal dollaro, che era sceso in quegli anni al 60-61%. Ma poi sono cominciati i guai: la crisi dei subprime in America nel 2007-2008, quella dei debiti pubblici in Europa nel 2011-2012 (quando l’euro è stato sull’orlo di sfasciarsi il che non ha certo deposto bene per gli operatori sui mercati), poi un periodo in cui gli investitori si sono dovuti convincere che con «whatever it takes» Mario Draghi diceva sul serio, quindi lo sconquasso dovuto alla Brexit nel 2016, la pandemia all’inizio del 2020, infine le guerre… «Per una valuta nuova che è in attesa di consolidare le sue posizioni nei portafogli globali, quest’ambiente “irrequieto” è il peggiore in cui potesse trovarsi», spiega Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. Così è cominciata la risalita del dollaro, «che in qualsiasi crisi, paradossalmente anche generata all’interno degli Usa, è comunque un bene-rifugio», dice l’economista Paolo Guerrieri di SciencesPo. L’euro è sceso via via fino al 17% nel 2016 (mentre il dollaro risaliva fino al 67%), per poi riguadagnare faticosamente terreno fino al 19,8% di oggi, con il dollaro al 60,9%.

 

Intanto sui mercati valutari sono cambiati altri equilibri. Intanto la sterlina, al pari del franco svizzero, è praticamente sparita dai panieri delle valute di riserva. «Ma la piazza finanziaria di Londra – puntualizza Brunello Rosa, docente alla London School of Economics – malgrado la Brexit conserva quello che gli operatori chiamano “plumbing”, letteralmente tubature: qualsiasi operazione finanziaria globale di rilievo, continua a essere architettata, organizzata e gestita a Londra, più che a Wall Street. Questo grazie alla tradizione, l’efficacia, l’efficienza e l’imparzialità riconosciute alla City in ogni angolo del pianeta. Perfino gli americani hanno imposto la forza del dollaro, del bond, delle azioni, ma riconoscono che il centro del mercato globale rimane l’Inghilterra».

 

C’è poi il caso dello yen: reduce da ormai lontani successi (nel 1990 valeva il 9,4% delle riserve mondiali) ha conosciuto un lunghissimo tramonto in coincidenza con la prolungata recessione di Tokyo che l’ha portato al 2,9% nel 2009 e a una brutale svalutazione: per comprare un dollaro bastavano 101 yen nel 2014, ora ne servono 159. Però è cominciata la riscossa: finalmente la Bank of Japan ha avviato i rialzi dei tassi per fermare la caduta della valuta, le industrie (che peraltro non erano mai scese sotto un alto livello tecnologico) rilanciano l’export, nuove alleanze perfino nel settore militare nascono con Usa e Ue. Il Giappone torna fra i grandi. E l’Europa ha un concorrente in più.