L’unico Paese che ha sperimentato l’elezione diretta del primo ministro è Israele. Ma il tentativo è fallito. E in Italia già emergono problemi e contraddizioni. Su cui il progetto di Giorgia Meloni è del tutto confuso

L’ultimo sondaggio Demos rivela che l’elezione diretta del presidente del Consiglio piace al 55 per cento degli italiani. Si capisce dunque che Giorgia Meloni non tema l’inevitabile referendum confermativo sul premierato, che lei è riuscita abilmente a blindare chiudendolo in un pacchetto con le due riforme-bandiera degli alleati: l’autonomia differenziata che reclama la Lega e la separazione delle carriere dei magistrati invocata da Forza Italia.

 

L’elezione diretta del premier non è un’invenzione della destra. Anzi, il primo a teorizzarla fu nel 1956 un celebre politologo di sinistra, Maurice Duverger, in contrapposizione al semi-presidenzialismo di De Gaulle (che alla fine prevalse). Nessuno però è ancora riuscito a farla funzionare. In Israele, l’unico Paese al mondo che l’ha sperimentata, la riforma è clamorosamente fallita (e subito è stata accantonata): doveva favorire la stabilità e ridurre il numero dei partiti e invece ha visto cadere uno dopo l’altro tre premier in cinque anni, mentre la frammentazione partitica, invece di diminuire, è aumentata.

 

Presentando il premierato all’italiana, il governo Meloni ha detto di voler fare tesoro del fallimento israeliano. Purtroppo il come non è ancora chiaro. Dietro questa etichetta che piace agli italiani c’è un progetto piuttosto confuso. Cito solo due buchi neri, segnalati dal costituzionalista Stefano Ceccanti. Il primo è la scheda. «Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del presidente del Consiglio avvengono contestualmente», prevede il testo governativo. Dunque ogni elettore dovrebbe dare tre voti che potrebbero anche essere contraddittori, votando per esempio il candidato del centrodestra per Palazzo Chigi e un partito di sinistra per il Parlamento, e non si potrebbero escludere due maggioranze opposte che condurrebbero inevitabilmente all’ingovernabilità.

 

Il secondo buco nero riguarda l’assegnazione del premio di maggioranza. Cosa succede se nessuno supera la soglia minima per ottenerlo? Non si assegna o si va al ballottaggio? E che si fa, se alla Camera vince la coalizione A e al Senato la coalizione B? Non sono dettagli minori, né meccanismi che possono essere disegnati in seguito, perché la separazione del voto per le due Camere è stabilita nella Costituzione e non può essere superata con la legge elettorale, alla quale la ministra Casellati rinvia spensieratamente.

 

Sono ostacoli superabili – per esempio con il doppio turno e con l’assegnazione a una sola Camera del potere di dare la fiducia al governo – ma la maggioranza è bloccata dai veti di Lega e Forza Italia, timorose di favorire l’opposizione. La quale, invece di infilarsi come una lama nelle divisioni del centrodestra, ha scelto la strada della contrapposizione frontale: «Usiamo i nostri corpi e le nostre voci per fare muro», dice Elly Schlein, dimenticando che è stata proprio la sinistra – nella Bicamerale guidata da Massimo D’Alema – a sostenere l’elezione diretta del premier.

 

Sia la maggioranza sia l’opposizione sembrano così incapaci di raddrizzare le gambe al premierato, prigioniere di una formula che da entrambe le parti può essere sbandierata per raccogliere voti il 9 giugno ma che è ancora lontana dall’essere una soluzione al caso italiano.