Con il primo sì del Senato è iniziato il viaggio della contestata riforma. Ma con le opposizioni che riempiono le piazze e i dubbi dei costituzionalisti la leader di Fdi pensa a rinviare la consultazione a dopo le prossime elezioni

L’unica certezza è che alla fine saranno gli italiani a decidere sulla riforma. Soprattutto dopo la radicalizzazione prodotta dalle elezioni europee, con il bipolarismo Fratelli d’Italia-Partito democratico, sul premierato si andrà al referendum, quello confermativo previsto dalla nostra Costituzione quando una revisione della Carta non ottenga in Parlamento la maggioranza dei due terzi. Il no di Pd e Cinque Stelle è irremovibile e non c’è spazio, al momento, per modifiche bipartisan che possano condurre a una convergenza finale su quella che, per la destra meloniana, è «la madre di tutte le riforme».

 

Ok il referendum, ma quando? Non prima del 2026, e comunque almeno sei mesi dopo l’ultimo passaggio parlamentare del ddl costituzionale; 2026 vorrebbe dire un anno prima delle elezioni politiche. «O la va o la spacca», ha annunciato Giorgia Meloni, si vince o si perde, ma niente dimissioni in caso di sconfitta (anche se in questo caso la tenuta del governo sarebbe a rischio). E spunta il piano B: eventuale slittamento del referendum all’inizio della prossima legislatura, dopo le elezioni politiche, se il clima ora molto favorevole alla premier, dovesse cambiare. Non si sa mai. Nelle stanze del governo, non si esclude l’ipotesi del rinvio, sia pure guardando alle Camere. «Sappiamo quali sono i tempi parlamentari… Nell’esame della riforma ci possono sempre essere ritardi, slittamenti, sospensioni…». Il referendum a quel punto seguirebbe le Politiche, con minori rischi per il governo.

 

Ormai lo scontro è tale che si sposta dalle aule parlamentari alle piazze, come quella di Roma che, martedì 18 giugno, nel giorno del sì del Senato alla riforma, ha unito quasi tutte le opposizioni. A Santi Apostoli, luogo caro a Romano Prodi che festeggiò lì l’ultima vittoria elettorale, mancava Italia Viva e non c’era neppure Carlo Calenda. Ma tutti gli altri erano presenti, dal Pd ai Cinque Stelle, da Alleanza Verdi e Sinistra a +Europa. «Non c’è stato nessun confronto, e il governo è andato a testa bassa, imponendo al Parlamento il premierato e l’Autonomia differenziata che spacca l’Italia», denuncia Francesco Boccia, presidente dei senatori Pd.

 

Giuseppe Conte

 

C’è un rimprovero che vale per tutti. «Dopo le Europee, purtroppo lo scontro bipolare investe anche le regole, che invece dovrebbero restare estranee alla lotta politica, perché andrebbero scritte dalla maggioranza e dall’opposizione insieme…», sospira il costituzionalista Stefano Ceccanti che vede «un’Italia divisa in due», anche al cospetto delle riforme. Vuol dire che, «se per ipotesi in futuro a sinistra il campo fosse davvero largo, includendo tutti o quasi, una nuova vittoria elettorale del centrodestra non sarebbe scontata, motivo per cui oggi converrebbe anche all’attuale maggioranza scrivere regole costituzionali che non danneggino chi domani sarà all’opposizione. Con un Paese spaccato non si può essere certi di nulla riguardo al futuro», avverte Ceccanti.

 

Dopo il sì del Senato, prosegue il proprio percorso parlamentare, con altri tre passaggi davanti alle Camere, un testo che modifica in profondità l’architettura costituzionale della Repubblica, fino a limitare le prerogative del Quirinale. Si parte dall’elezione diretta del presidente del Consiglio che è un unicum nel panorama delle democrazie contemporanee e che fu introdotta esclusivamente da Israele, caratterizzando tre sole consultazioni elettorali (1996, 1999 e 2001) prima di essere cancellata. È vero che la riforma di Tel Aviv fallì per non avere legato all’elezione del premier quella del Parlamento e per avere lasciato in vigore la legge elettorale proporzionale, incentivando così la frammentazione partitica ai danni della governabilità, ma è altrettanto vero che proprio quei difetti vengono affrontati dal premierato all’italiana provocando una serie di pericolosi scompensi che rischiano di compromettere gli equilibri costituzionali aprendo le porte al caos.

 

Sono direttamente gli elettori a scegliere l’inquilino di Palazzo Chigi, conferendo al capo del governo, con il voto popolare, un peso enormemente superiore a quello dei presidenti del Consiglio della Prima Repubblica, alla guida di governi troppo spesso condannati a durare poco, perché frutto di negoziazioni complicate, a partire dalla scelta dell’inquilino di Palazzo Chigi. Con la Seconda Repubblica, le cose in realtà sono cambiate. È avvenuto che indirettamente alle elezioni politiche fossero gli elettori a scegliere, almeno con la sfida fra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, indicati dai rispettivi schieramenti. Il capo dello Stato – prevede la riforma – «conferisce» obbligatoriamente l’incarico di formare il governo al candidato-premier vincente (non c’è scritto come adesso «nomina»). Il presidente della Repubblica non può fare diversamente: è convocato al Quirinale chi è eletto premier. Il presidente del Consiglio scelto dagli italiani «per cinque anni» si sottopone al voto di fiducia delle Camere, ma dopo aver “trascinato” con sé i parlamentari che compongono la maggioranza. Sì, perché l’elezione del presidente del Consiglio e le elezioni dei parlamentari avvengono contestualmente. Ed è questo il cuore della riforma: Giorgia Meloni punta le sue carte su un nuovo sistema che dovrebbe consentire al premier di trainare i parlamentari di una maggioranza, nata intorno al candidato per Palazzo Chigi, nel momento stesso delle candidature elettorali e che non potrà prescindere da chi guiderà il governo.

 

Elly Schlein

 

È una scelta di rottura quella del destra-centro. La premiership coincide con la leadership. È un tutt’uno che viene adottato per rendere Palazzo Chigi il centro del sistema, a danno delle Camere. Una scelta che sarebbe stata diversa se l’attuale maggioranza avesse confermato il semipresidenzialismo francese che era nel programma non solo di Forza Italia, ma anche di Fratelli d’Italia. Avremmo avuto un sistema bicefalo con il presidente della Repubblica eletto dal popolo, che poi sceglie il presidente del Consiglio, e le Camere elette attraverso elezioni appunto “legislative”, solo per i parlamentari.  Niente di tutto questo. «È stato Berlusconi – ricorda Maurizio Gasparri, presidente dei senatori azzurri – a introdurre il tema dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, che era nel nostro programma elettorale. Il premierato all’esame del Parlamento è un compromesso». La via italiana, oltre a essere duramente osteggiata dal Pd e dai Cinque Stelle all’insegna della difesa della Costituzione, non convince molti studiosi.  «Siamo davanti a un tentativo ardito, conoscendo la storia costituzionale contemporanea. Tanto più ardito se si considera che scarica sulla futura legge elettorale, che ancora nessuno conosce, i problemi irrisolti della riforma», osserva l’ex ministro Gaetano Quagliariello, forte anche dell’esperienza legata a una lunga militanza parlamentare nel centrodestra.

 

Quali sono i problemi? I parlamentari sono eletti con un «premio» fissato da una nuova legge elettorale che ancora non c’è, ma che dovrebbe garantire alla coalizione vincente la maggioranza in ciascuna Camera. Di conseguenza, la riforma è sottoposta al voto del Parlamento senza che sia chiarita quale sia la soglia che le liste collegate al candidato premier devono conquistare per ottenere il premio. Taglia corto Ceccanti: «Inutile attendere la legge elettorale,  inseriamo subito il ballottaggio in un articolo della Costituzione». La Lega si oppone.

 

Ecco perché se le opposizioni denunciano l’arrivo di un premier autoritario – «è una riforma che sfascia gli equilibri su cui si basano le nostre istituzioni», accusa Boccia – c’è anche il rischio opposto: una maggioranza allo sbando e una stabilità di governo compromessa se la soglia elettorale per ottenere il premio non venisse raggiunta e non fosse previsto il ballottaggio. Infine, il pericolo di una vera e propria beffa: la sorte della legislatura affidata al voto degli italiani all’estero, che – se non fosse posto un argine nelle norme – potrebbe risultare determinante. Sono cinque milioni di elettori, a fronte dell’astensionismo crescente nel nostro Paese. Immaginate: «il premier degli italiani» eletto fuori dai confini nazionali. Altro che sovranismo! «È un problema», ammette Alberto Balboni (FdI), relatore al Senato.

 

Quirinale. «La riforma – ha spiegato la ministra delle Riforme Elisabetta Casellati – limita le occasioni in cui il capo dello Stato era costretto a dilatare la fisarmonica dei suoi poteri per supplire all’incapacità della politica. Per questo la riforma introduce una articolata regolamentazione di tutte le crisi di governo definendo le soluzioni politiche». Qualora il governo non ottenga la fiducia, il presidente della Repubblica rinnova l’incarico al presidente eletto di formare il governo. Se anche questo tentativo dovesse andare a vuoto, con le Camere che di nuovo non votano la fiducia, il presidente della Repubblica scioglie il Parlamento. Al capo dello Stato, dunque, resta un ruolo “notarile”, che non prevede neppure che siano sentiti i presidenti delle Camere. Solo davanti alle dimissioni del premier, le elezioni anticipate non sono automatiche: il capo del governo può chiedere lo scioglimento, ma il presidente della Repubblica è libero di scegliere, potendo affidare l’incarico al premier dimissionario oppure a «un altro parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio». Eventualità, quest’ultima, che però potrebbe incoraggiare un alleato di governo a rendere la vita difficile al premier per prenderne il posto, oltretutto trascinando il Quirinale dentro una contesa interna alla maggioranza.

 

È la riforma sulla quale Giorgia Meloni ha lanciato la sfida, fin dal primo momento e con qualche aggiustamento tecnico in corso d’opera. La risposta del Pd e dei Cinque Stelle: un no intransigente e tanti emendamenti. Ma «non possiamo offrire l’immagine di una forza di conservazione, limitandoci a difendere la Costituzione, come pure è doveroso. Il nostro modello deve essere quello tedesco, cancellierato contro premierato, senza elezione diretta», avverte il deputato del Pd Piero De Luca, auspicando che si possa trovare un’intesa anche con le altre opposizioni.

 

Ma è difficile che la premier scelga i tempi del referendum senza la certezza di vincere, considerando che i prossimi anni non si preannunciano facili per il governo, con un debito pubblico che, anche grazie al nuovo Patto di Stabilità, impedirà manovre in deficit. La delusione di alcuni settori del Paese per promesse non mantenibili potrebbe scaricarsi sul referendum, con un effetto domino sulle successive Politiche. Slittamento? «Non sarebbe un male – sottolinea lo storico Quagliariello – perché davanti a un progetto ampio prendere tempo non è peccato mortale. Occorre prudenza, guardando anche ai possibili miglioramenti. Per introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica, Charles de Gaulle impiegò quattro anni».