Lo scandalo Toti-Spinelli smaschera una consuetudine di accordi e denaro tra partiti e portatori d'interesse non sempre illecita, ma spesso ambigua. Perciò serve trasparenza. E monitorare senza attendere l'intervento della magistratura. Ma la politica in questi anni è andata in direzione opposta

Estranea al ciclone ligure, ma consapevole del crinale in cui l’inchiesta conduce la maggioranza di governo, la premier, leader in casa da tempo, è all’ennesimo bivio nella sua stagione, relativamente breve, di guida del Paese.

 

La connection imprese-politica (ri)emersa con lo scandalo Spinelli-Toti rivela la fragilità di un sistema che, con la pretesa di rendere più pulita l’attività dei partiti li ha spinti sotto il giogo dei finanziamenti ad personam, tracciati, ma nei fatti, fuori controllo. Versamenti, in concreto a singoli amministratori che, ovviamente, essendo opera di portatori di interessi non hanno – non potrebbe essere diverso – nulla di liberale, se non nella finzione tutta italiana, pallida emulazione della trasparenza. E questo indipendentemente dagli accertamenti giudiziari. Perché legale non è sinonimo di giusto e il marcio sta spesso anche nel lecito. Nel grumo di accondiscendenze e pretese che presiede al rapporto tra chi svolge una funzione pubblica e chi bussa alla sua porta.

 

Il momento in cui l’atto amministrativo ha una contropartita, l’immediatezza dello scambio, è dirimente per la giustizia. Per la politica il punto, però, non dovrebbe essere il fattore tempo ma semmai l’opportunità. Se mi occupo di sanità – assessore, sindaco, presidente di Regione o ministro – e nella mia borsa si accumulano bonifici, perfettamente leciti, ma provenienti da operatori privati è legittimo chiedersi se le mie azioni politiche non siano condizionate da quelle sovvenzioni. O, peggio, corrispondano al prezzo della svendita di funzione. Per quanto squinternati, i partiti – tutti, perché nessuno può dirsi vergine – hanno antenne che captano ancora cose del genere. E, non fossero sufficienti quelle, ci sono atti, delibere, decreti che a guardarli e a incrociarli con le premesse, dicono praticamente tutto. Stanno lì a raccontare chi guadagna e chi perde da un provvedimento.

 

Nel tempo, ogni tentativo, lodevole, di disciplinare il finanziamento alla politica – dalle lobby ai conflitti di interesse – è andato in frantumi nel retrobottega dei partiti, lì dove cadono le maschere. Occorrerebbe forse ripensare qualcosa circa il vituperato finanziamento pubblico che certo non è la panacea, perché non sterilizzava il malaffare, ma almeno non ne accresceva gli alibi.

 

Quel che però si deve fare e con urgenza è ripristinare un sistema di controlli. La dismissione delle procedure di verifica, erette a baluardo degli interessi pubblici, ha spianato la strada all’indecenza dei patti e degli accordi. In nome della celerità delle opere, incagliate negli scogli di una iperproduzione legislativa, abnorme, stratificata e contraddittoria, anziché porre mano a un’autentica semplificazione, si è scelto di agire solo sulle regole. E sull’altare dell’urgenza sono state stravolte e poi polverizzate. Soglie crescenti per gli affidamenti diretti hanno spalancato la porta alla discrezionalità, ammantata di politica e non sottoposta a nessuno stop intermedio prima del vaglio giudiziario che, quando arriva, giunge a cose fatte.

 

Per questo, separazione delle carriere dei magistrati, periodiche strette sugli strumenti di indagine, modifiche al codice sui reati e bavagli suonano solo come espedienti per demolire il controllo di legalità, anziché strumenti di vera giustizia.

 

Tra pochi giorni ricorrerà il trentaduesimo anniversario della prima delle stragi che nel 1992-1993 dirottarono il corso della politica italiana. Giorgia Meloni ha sempre rivendicato con orgoglio di ispirarsi alla lezione di Paolo Borsellino. Ecco, sarebbe l’occasione, a partire dalle preoccupazioni per le contingenze liguri, per scartare, darsi una postura da statista europea e intestarsi una stagione di regole, forti, chiare e indiscutibili. Su quello, più che sulla scorciatoia, vaga suggestione di stabilità, della contorta riforma Casellati, potrebbe giocarsi la sua partita da premier popolare.