La morte e la vita s’intrecciano nell' hunger strike. Un libro ripercorre le radici di un mezzo di resistenza con cui il detenuto, negando la sua fisicità, cerca di opporsi a chilo vuole seppellire

Le politiche di alimentazione forzata sull’hunger striker, introdotte per la prima volta dal governo britannico nel 1909 per disinnescare gli scioperi della fame delle suffragette, hanno segnato l’inizio di una pratica controversa e spesso letale. Dai primi interventi medici nei confronti degli hunger strikers irlandesi durante le lotte dell’Ira (Irish Republican Army), che portarono alla morte del leader Thomas Ashe, fino agli episodi più recenti come gli scioperi della fame nelle carceri in Turchia, Israele, Guantánamo Bay e dell’anarchico Alfredo Cospito nel 41-bis, il dibattito sulla moralità e sull’opportunità di intervenire su chi sceglie questa forma estrema di protesta è stato costantemente rinnovato. Il carattere molteplice, sfuggente e potenzialmente mortale del gesto dell’hunger striker è l’oggetto di questo libro. Per portare alla luce la sostanza del suo gesto, quel darsi la morte per inedia con l’intento di ricostituire sé stessi e il mondo, dovremo affrontare alcune premesse metodologiche, concettuali e filosofiche. Soprattutto, dovremo tenere bene a mente come nel corso nel Novecento questo fenomeno si sia sviluppato con l’avvento delle carceri di massima sicurezza.

 

Ecco il primo punto fondamentale di questa analisi: l’hunger striker trova nell’orrore “bianco” di una cella-bunker il suo fondamento e la sua legittimità. Il tentativo di seppellire il soggetto (in termini fisici e psicologici) attraverso l’incarcerazione estrema è alla base della risposta – che immediatamente si fa “resistenza” – di quello stesso corpo che l’istituzione penale vorrebbe piegare e, allo stesso tempo, preservare. Dunque, morte e vita si intrecciano in quel dire «no» al cibo, all’acqua, o a qualsiasi intervento che permetta la continuità della vita biologica. Ma questo dire «no» è allo stesso tempo un’affermazione. Al contrario dell’evento suicidario, esso si risolve in un tentativo di affermazione della vita, non di quella meramente biologica basata sulla sopravvivenza del corpo, ma della vita politicizzata in tutta la sua potenza e radicalità estetica. Il corpo martoriato e collassato dell’hunger striker è la rappresentazione plastica e immediata della funzione mortifera dello stato penale portata all’estremo. Le sue piaghe dovute all’inedia sono i segni corporei di una lacerazione che, prima di ogni cosa, è il prodotto di un’adesione totale – sempre personale ma con aspirazioni universali – a un progetto politico. In questo senso allora dobbiamo intendere questa particolare forma di vita: la coincidenza totale tra soggetto incarnato e “ideale” politico. Su questo punto, ovvero sulla risposta che il soggetto può dare a una politica basata sulla morte e sull’annientamento, Roberto Esposito afferma che, al centro di questo scontro, c’è sempre il corpo umano: se esso «è oggetto di controllo e di sfruttamento, è anche soggetto di rivolta».

 

 

Un altro punto fondamentale è che il gesto dell’hunger striker non può essere svincolato dagli eventi storici. Ovvero, una storia dell’hunger striker è, inevitabilmente, una storia legata alla specifica dimensione sociale e culturale nella quale essa è immersa. Il suo gesto è un marchio (una stratificazione di segni) che si imprime nel corpo ma, allo stesso tempo, investe un’epoca e si tramuta in una ferita potenzialmente pericolosa per tutto il «corpo sociale». Se quel gesto del dire «no» è sempre presente ed è sempre uguale a sé stesso (la sua fisiopatologia), le motivazioni e le aspirazioni dell’agente variano con il mutare del contesto sociopolitico. Dunque, esso è un paradigma dell’agire politico (inteso come idealtipo di una rivolta fondata sulla corporeità) che può essere raccontato solo attraverso le molteplici intersezioni tra le vicende singolari e quelle sociali. Il risultato è un ibrido, un soggettooggetto fluido e nomade, che si muove tra il terrore dell’annientamento e la gloria immortale del martirio. Proprio come succede per il suo corpo, le sue narrazioni scritte o parlate si sovrappongono a quelle pubbliche ed egli stesso si fa portatore di un nuovo messaggio destabilizzante di morte e speranza. Ma non c’è modo di gettare luce sull’abisso di una cella di massima sicurezza se non attraverso la testimonianza dello stesso soggetto. Così, allo stesso tempo, non c’è modo di intendere le sue parole se non attraverso le analisi filosofiche, storiche e sociologiche. Ma bisognerà sempre tenere a mente che l’impatto del biopotere sui corpi risulterà per noi difficile da capire attraverso la semplice e illusoria trascrittura delle testimonianze. A distanza di decenni da quegli eventi faremo fatica a intendere davvero quelle parole o a rappresentarci quelle scene. Il dolore, l’orrore, la rabbia e la vergogna corromperanno ogni tentativo di immedesimazione riuscita con i «sepolti vivi». E allora in questo senso bisogna intendere le loro testimonianze: esse possono divenire “utili” per le analisi filosofiche o sociologiche se ancorate ai paradigmi della biopolitica, ma presenteranno (e pretenderanno) sempre uno scarto irriducibile, un resto indecifrabile, forse impossibile da pensare e sistematizzare.

 

Dunque, questo libro è anche un’inchiesta, un’incursione nell’attualità e tra le sue molteplici interpretazioni e trasfigurazioni. Prima di ogni analisi sulle varie ondate di hunger strikers, presenteremo il carattere specifico dell’istituzione totale carcere e poi i contesti sociopolitici nei quali esse si collocano e agiscono. È un atto dovuto, senza il quale ogni tentativo di restituire veridicità all’analisi risulterebbe vana o incompiuta. Dunque, più che un resoconto di eventi collocati nel tempo questo libro è una narrazione del dolore e dell’agonia individuale e delle sue manifestazioni politiche. Questo perché il dolore e l’agonia dell’hunger striker sono parte integrante del suo agire politico.