Il presidente Raisi, morto nell'incidente in elicottero, era in buona posizione per prendere il posto dell’anziana Guida Spirituale, uomo più potente del paese. Fino a quando c’è lui al comando cambierà poco

«Non c’entriamo nulla con quest’incidente. Non siamo stati noi». Il giorno stesso dello schianto e quando i resti dell’elicottero su cui viaggiava il presidente iraniano Ebrahim Raisi non erano ancora stati localizzati sulle montagne dell’Iran settentrionale, a cento chilometri dalla città imperiale di Tabriz, una fonte anonima israeliana soffiava all’orecchio dell’Agenzia Reuters, perché ne facesse buon uso, che Israele non aveva niente a che spartire con l’incidente che è costato la vita all’uomo più potente dell’Iran dopo la Guida Suprema, Alì Khamenei, e molto probabilmente destinato a succedergli in un futuro non troppo lontano.

 

Ma se il rischio di una nuova e più devastante deflagrazione, in grado d’incendiare l’intero Medio Oriente e forse oltre i suoi confini, sembra per il momento accantonato, la morte dell’hojjtoleslam Raisi, forse l’uomo più odiato del regime per il suo ruolo di instancabile persecutore del dissenso, ma, di contro, molto apprezzato dal Potere per la sua incondizionata obbedienza alla Guida Suprema, non pare possa ribaltare il ruolo antagonista assunto dall’Iran nei confronti dell’asse israelo-americano su cui si basano gli equilibri nella regione, né la strategia adottata dal regime degli Aytollah per mantenere questo ruolo.

 

E dunque, la “guerra ombra”, sempre in procinto di trasformarsi in scontro aperto fra lo Stato ebraico e la repubblica islamica degli Aytollah, continuerà senza apparenti maggiori mutamenti. Israele cercherà di rompere quello che lo stratega dell’espansionismo iraniano in Medio Oriente, il generale Qasem Soleimani, ucciso nel gennaio del 2020 dagli americani, definiva “l’anello di fuoco” stretto intorno allo Stato ebraico dal cosiddetto Fronte della Resistenza. Vale a dire: dalla coalizione di gruppi armati (da Hamas a Gaza, agli Hezbollah libanesi, agli Houthi yemeniti, alle milizie sciite irachene) in grado di coordinare i loro attacchi contro Israele, come sta succedendo a margine della guerra di Gaza, seguita al massacro provocato da Hamas il 7 Ottobre, fra le comunità ebraiche del Negev. Mentre l’Iran procederà per aggiustamenti progressivi della sua strategia, come è successo con l’attacco portato contro obbiettivi militari in territorio israeliano da centinaia di missili e droni, la gran parte intercettati e distrutti in volo.

 

In questo contesto, sotto la spinta di Khamenei, la macchina propagandistica del regime ha preferito celebrare Raisi, come una «vittima del dovere» e non come un «martire dell’aggressione sionista». I media di Stato hanno abbracciato la tesi del “guasto tecnico”. E se c’è qualcosa che possa collegare la morte di Raisi al conflitto permanente con il “Grande Satana” americano, per usare un’espressione cara a Khomeini e i suoi alleati nella regione, questo elemento, secondo l’ex ministro degli Esteri, Mohammed Javad Zarif, uno dei protagonisti dell’accordo sulle limitazioni del programma nucleare iraniano raggiunto nel 2015 con Obama e fatto a pezzi tre anni dopo da Trump-Netanyahu, è «il divieto degli Stati Uniti all’Iran di aver accesso ai pezzi di ricambio» per rimettere in piedi la obsoleta (e rischiosissima) aviazione iraniana. L’incidente sarebbe in sostanza da annoverare, fra le conseguenze drammatiche della sanzioni, che affliggono l’economia iraniana dall’indomani della rivoluzione.

 

Ma tolto questo necessario accenno polemico, il messaggio che Teheran ha scelto di proiettare all’esterno dopo lo schianto dell’elicottero, su cui oltre a Raisi, viaggiavano anche il Ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian ed altri notabili, è stato di calma e stabile transizione.

 

La televisione ha subito trasmesso le immagini di Mohammad Mokhber, il vice di Raisi che, in base alla costituzione, lo ha provvisoriamente sostituito e che dovrà traghettare il Paese verso nuove elezioni, presiedere il primo Consiglio dei Ministri.

 

Ma fin qui siamo nell’ambito degli atti dovuti. Per capire come si muoveranno in vari schieramenti interni, bisognerà aspettare che si chiuda la finestra dei cinquanta giorni entro cui dovranno celebrarsi le elezioni del nuovo presidente. E in base ai candidati che avranno superato il percorso a ostacoli disegnato dalla maggioranza dei conservatori, oggi prevalente tanto all’interno della gerarchia religiosa quanto fra i Guardiani della Rivoluzione, si conteranno vincitori e vinti. Di nomi se ne fanno in abbondanza: dallo speaker del Parlamento e veterano dei Pasadaran, Mohammad-Baqer Qalibaf, al capo dei magistrati, Gholam-Hossein Mohseni Ejei, candidature queste quasi di rito. Ma si parla anche di un nuovo tentativo da parte di Alì Larijani, bloccato nelle elezioni del 2021 dai Guardiani che gli hanno preferito Raisi, al grande ritorno sulla scena dell’ex presidente, Mahmud Ahmadinejad.

 

In definitiva, non sarà la morte di Raisi a rimescolare la carte del potere iraniano. Il vero scontro di potere è quello per la successione alla Guida Spirituale, Alì Khamenei che ha 85 anni e, si vuole, salute malferma. La figura di Raisi aveva avuto una parte in questa battaglia, essendo stato candidato alla presidenza del Consiglio degli Esperti, l’organo istituzionale che sceglie la Guida Suprema. Raisi era entrato in gioco dal momento che l’ipotesi che Khamenei scegliesse come suo successore il figlio secondogenito, Mojtaba, aveva suscitato non pochi malumori all’interno del vertice. La nomina della nuova Guida Suprema per diritto ereditario, s’è detto, avrebbe snaturato l’essenza stessa della rivoluzione khomeinista, ma oggi l’ipotesi Mojtaba ritorna con forza.