Con il suo nome di battesimo sulla scheda, la presidente del Consiglio si prepara a dare l’assalto alle riserve elettorali dei suoi alleati. Soprattutto, mira a modificare i suoi poteri sapendo di essere forte. Verso il premierato e oltre

I manifesti giganti apparsi nelle strade di Roma e Milano – «Con Giorgia» – prima ancora che la convention di Pescara si concludesse rivelano che la decisione della premier di chiedere agli elettori di scrivere sulla scheda solo il suo nome di battesimo non è stata affatto una mossa a sorpresa. Giorgia Meloni non vuole più voti, vuole un plebiscito. Su di sé.

 

Non si tratta, come è stato impropriamente scritto, di un referendum, perché quello ha per oggetto una norma o una legge. Il plebiscito è un’altra cosa. Nell’antica Roma era la votazione con la quale, nei Concilia Plebis, veniva approvato «ciò che la plebe comanda e stabilisce». Nell’era moderna è diventato lo strumento usato da chi comanda per modificare i limiti ai suoi poteri. Napoleone Bonaparte ricorse a un plebiscito per essere nominato «console a vita», Napoleone III lo imitò per farsi proclamare imperatore, Adolf Hitler per passare da presidente del Reich a Führer con pieni poteri.

 

La presidente del Consiglio non ha in mente nulla del genere, ovviamente, ma la pioggia di preferenze che lei vuole attirare sul suo nome (più che sul simbolo del suo partito) dovrà sancire ufficialmente il suo ruolo di sola vera rappresentante del popolo, acquistando nell’immaginario collettivo della nazione il ruolo di console unica della plebe che si batte contro i patrizi degli altri partiti, a cominciare da «una sinistra che va forte nei quartieri chic, pieni di ricchi».

 

Perciò Giorgia – come lei vuole essere chiamata da ora in poi – ha orgogliosamente rivendicato dal palco di Pescara persino gli insulti degli avversari («Mi hanno chiamata pesciarola, borgatara…») marcando la differenza di status proprio per sottolineare che lei è «fiera di essere una del popolo». E dice «sarò sempre una di voi» per chiedere a quel popolo di dirle sulla scheda elettorale «se ancora credete in me». O con me o contro di me, dunque, chi mi ama mi segua.

 

Ecco perché sarà di fatto un plebiscito quello che si celebrerà tra cinque settimane in queste elezioni che di europeo hanno davvero poco, con i leader – a cominciare proprio dalla premier – che si candidano senza avere alcuna intenzione di andare davvero a Strasburgo, e con il solito circo di nomi acchiappa-voti alla testa del quale stavolta c’è addirittura un generale dei paracadutisti.

 

La presidente del Consiglio non farà un altro tour elettorale: non ne ha bisogno. Ormai ha imparato che un videomessaggio sapientemente girato nelle stanze di Palazzo Chigi pesa assai più di un comizio. Ma ormai lei può fare a meno anche di quelli, visto l’appoggio quotidiano che le garantisce il principale telegiornale della tv pubblica, magnificando ogni sua decisione e bastonando sistematicamente i suoi oppositori.

 

Lei non teme più nessuno. Sa che il 10 giugno risulterà di gran lunga la candidata più votata, e con la personalizzazione della partita punta ad approfittare della debolezza dei concorrenti. I suoi avversari sono lacerati dalle divisioni, mentre i suoi alleati – sottomessi e privati di quel potere di veto che in ogni coalizione è il fattore decisivo – si preparano ad affrontare quella che Ezio Mauro ha definito «un’opa politica», l’assalto della premier ai loro granai elettorali. Dunque Giorgia attende fiduciosa il plebiscito. Verso il premierato e oltre.