Ritratti
Giuseppe Conte fa sempre flop. Ma non è mai a rischio
Da quando è leader i Cinque Stelle hanno subìto solo sconfitte elettorali, eppure il suo potere nell’ex movimento è ormai ferreo. Grazie alle giravolte politiche di cui nessuno gli chiede conto
Da quando Giuseppe Conte è a capo del fu movimento politico fondato da Beppe Grillo, il partito è andato giù a precipizio. L’ultima botta, alle Regionali in Basilicata. Lì i voti per il M5S sono scesi dai 58.658 del 2019 a 20.026. Meno 65,8 per cento. Meglio non è andata qualche settimana prima in Abruzzo: meno 65,6. E perfino in Sardegna, dove è stata eletta sul filo di lana la sua candidata Alessandra Todde, sono evaporati 17 mila voti: meno 24,2 per cento.
Per non parlare dei disastri precedenti. Alle politiche del 25 settembre 2022 Conte ha raccattato 4,4 milioni di consensi. Mica male. Ma erano 11 milioni nel 2018: meno 59,5 per cento. Sei milioni e mezzo di voti evaporati in quattro anni e mezzo. E le Comunali di Roma? Meno 73,4 per cento. E quelle di Torino? Meno 85,8. E quelle di Carbonia? Meno 91,2. Una dopo l’altra, le poltrone di sindaco nei capoluoghi di provincia e nelle grandi città che il Movimento Cinque Stelle aveva prepotentemente conquistato, sono andate perdute. Con tracolli elettorali generalizzati e senza precedenti. Ovunque e senza che Conte venga messo in discussione da militanti e quadri del suo partito. Mentre gli alleati ne ingoiano senza fare una piega i veti, com’è accaduto alle elezioni che hanno consegnato la Basilicata alla destra.
Tutto ciò rende assolutamente inspiegabile l’aspirazione, ormai sempre più conclamata, di assumere il ruolo di guida dell’opposizione contendendolo alla arrendevole segretaria del Pd Elly Schlein. Il fatto è che «Giuseppe è troppo ambizioso», come ha detto all’inizio della sua carriera politica chi l’ha conosciuto meglio di chiunque altro: suo papà Nicola Conte. L’ambizione è senza dubbio una molla potente, necessaria a conseguire risultati impensabili. E quando poi ci si mette la fortuna…
L’avvocato Giuseppe Conte diventa presidente del Consiglio per puro caso, come chi vince la lotteria senza neppure aver acquistato il biglietto. Quello glielo compra il collega Alfonso Bonafede, che sarà ministro della Giustizia nei suoi due governi. È lui che nel 2013 fa il nome dell’avvocato di Volturara Appula, uno della scuderia di Guido Alpa, per un posto di membro laico nel Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, il piccolo Csm di Tar e Consiglio di Stato. Da lì gli prenota un posto da ministro nel presunto futuro governo grillino, ma quando capita che il M5S vince le elezioni e il governo deve farlo davvero, nel deserto generale da candidato ministro Conte si ritrova candidato premier. Per inciso, quando poi Conte avrà vestito i panni di capo del partito e si troverà all’opposizione, restituirà il favore al collega Bonafede garantendogli l’appoggio per una posto da membro laico nel Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, ossia il piccolo Csm dei giudici tributari.
Il ruolo di presidente del Consiglio all’avvocato di Volturara Appula calza a pennello. «Conte non era iscritto al Movimento, è un bell’uomo, laureato, parla inglese, poi parlava e si capiva poco… Perfetto per la politica…», ironizza Beppe Grillo. Che non ne è apparso mai sedotto. E si capisce perché. Conte è esattamente il contrario dello stereotipo grillino, almeno per come la narrazione ce lo tramanda. È socio di un principe del foro, che poi dirà di avergli solo affittato una stanza, commissario al suo esame del concorso da professore ordinario, del quale molto si è discusso. Amico di burocrati e parrucconi del Consiglio di Stato, che da premier lo circonderanno. E con frequentazioni piuttosto lontane dalla frugale galassia a cinque stelle.
La sua attuale compagna Olivia Paladino è la figlia di Cesare Paladino, storico proprietario dell’Hotel Plaza di Roma, dove ha fatto base per anni nel crepuscolo della prima repubblica un pezzo del quartier generale del Partito socialista di Bettino Craxi, del quale ora è lei stessa comproprietaria. Un rapporto che durante la pandemia ha fatto anche discutere, e non per i rapporti sentimentali. Nel decreto “Rilancio” del secondo governo Conte emanato nei mesi tremendi del Covid-19 è spuntato un articolo, il numero 180, con il quale si dà una mano ai Comuni che non hanno incassato l’imposta di soggiorno dovuta dagli albergatori. Ma una bella mano si dà anche ai medesimi albergatori, trasformando le sanzioni penali a carico di chi ha riscosso l’imposta ma poi non l’ha versata in semplici, per quanto salate, contravvenzioni. E caso vuole che fra quegli albergatori ci sia anche Cesare Paladino, il quasi suocero-bis del presidente del Consiglio, condannato a un anno e due mesi per non avere dato al Comune di Roma un paio di milioni. La sanatoria poi non risulterà applicabile a lui, ma tanto basta per scatenare polemiche a non finire. Che continuano anche dopo la rivelazione del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, pronto a giurare di essere l’ispiratore della norma, di cui Conte «non sapeva nulla».
Cose del genere si sono viste spesso, nella nostra politica. Dove peraltro la coerenza fra i propositi e le azioni concrete ha sempre lasciato abbastanza a desiderare. Ma nel caso di Conte si è davvero superato politicamente ogni limite. Mai prima di lui un presidente del Consiglio aveva guidato senza soluzione di continuità prima un governo di destra e poi un governo di sinistra. Presentandosi alle Camere con discorsi programmatici agli antipodi nei principi ispiratori: il primo, severissimo con l’immigrazione; il secondo, comprensivo con le ansie e i diritti degli immigrati. Strabismo del tutto simile a quello sulla politica estera: prima entusiasta e poi neppure velatamente critica verso Donald Trump e Vladimir Putin. Continuando a galleggiare nell’ambiguità fino ai giorni nostri, quando si rifiuta di rispondere a una domanda cui qualunque politico deve rispondere: «Fosse negli Stati Uniti voterebbe alle presidenziali per Trump o per Joe Biden?»
Ma il record di equilibrismo l’ex premier l’ha stabilito nell’estate del 2022. Da più di un anno Conte è capo politico del Movimento Cinque Stelle. È stato confermato presidente del partito il 28 marzo 2022 con una votazione online cui ha partecipato appena il 45 per cento degli aventi diritto. Ha preso in mano il timone del M5S già nel marzo del 2021, subito dopo aver perduto la poltrona di presidente del Consiglio: da tempo ha preparato il terreno. E ora è l’azionista di riferimento del governo di Mario Draghi, l’ex presidente della Bce che i grillini hanno sempre visto come il fumo negli occhi.
Ma la scadenza della legislatura si avvicina e non tira una bella aria. I sondaggi evidentemente sono pessimi: l’unico modo per evitare di scomparire è tentare di risvegliare lo spirito grillino. Come? Semplice: facendo cadere Draghi, tornato a essere il banchiere nemico numero uno. Ed è proprio ciò che accade. Al voto di fiducia i grillini non partecipano, e i leghisti con quelli di Forza Italia li imitano. A lungo Conte nega le proprie responsabilità. Poi un bel giorno le ammette in una intervista al quotidiano spagnolo El Pais: «Sì, il responsabile sono io», risponde a una domanda del corrispondente Daniel Verdù.
La propria sopravvivenza politica barattata con la sopravvivenza del governo? Il giudizio di Luigi Di Maio, capo degli scissionisti grillini che non vogliono far cadere Draghi, è velenoso: «Di quel Movimento Cinque Stelle fondato anni fa con tante persone, non è rimasto quasi nessuno. Conte ha accentrato tutti poteri, ne ha fatto un partito autoreferenziale. Non è più M5S ma è il suo partito».
Di sicuro, adesso quello guidato da Conte è un partito come tutti gli altri. A marzo 2022 l’assemblea degli iscritti ha accolto le richieste di modifica dello statuto formulate dalla «Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e controllo dei rendiconti dei partiti politici», e così anche il M5S è diventato un partito a tutti gli effetti. Adesso può intascare pure i contributi pubblici del 2 per mille. È la fine dell’innocenza, altro che aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno».