Intervista
David Nicholls: «Non c'è nulla di strano nel trovare l'amore a 40 anni. Finalmente i modelli sono cambiati»
«Oggi intraprendere una relazione a questa età è comune, in un passato neanche troppo lontano ci si sarebbe sentiti in ritardo». Parla lo scrittore dal cui libro è stata tratta la serie Netflix One Day
Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare di “One day”, la serie Netflix che ha per protagonisti Emma e Dexter - innamorati dai tempi del college ma sempre incapaci d’intraprendere una relazione seria, duratura. “One day” è basato su un libro altrettanto fortunato - omonimo (uscito nel 2010, pubblicato da Neri Pozza) - , dello sceneggiatore, scrittore inglese David Nicholls, autore di sei romanzi, che torna in libreria con “Tu sei qui” (Neri Pozza). Nicholls è maestro nel raccontare l’amore in ogni sua forma e declinazione, e lo fa sempre con delicatezza, però senza mai sottrarre i suoi protagonisti al dolore.
“Tu sei qui” prende avvio dove abbiamo lasciato “One day”: Marnie e Michael trovano l’amore a quarant’anni, come Emma e Dexter.
«Tra le mie intenzioni non c’era l’idea di scrivere un sequel di “One day”, ma lei ha ragione: i due romanzi hanno tanti punti di contatto e questo è il più grande. In entrambi la domanda che mi sono posto è: come siamo arrivati a essere chi siamo? Da giovani ci immaginiamo a quarant’anni avendo idee precise su chi saremo, poi la vita capita e prendiamo vie che mai avremmo immaginato».
A vent’anni pensava spesso a come sarebbe stato a quaranta?
«Sì, e non la immaginavo così. La cosa più sorprendente è il fatto che a vent’anni siamo convinti che l’età adulta sarà il frangente in cui la lotta per diventare chi vorremmo sarà finita, e però non è così. In un campo o nell’altro ci ritroviamo spesso a dover ricominciare - divorziamo, cambiamo lavoro, città. Ecco, “Tu sei qui” è sul cercare l’energia per riniziare».
Che fine fanno, secondo lei, i piani che progettavamo da giovani?
«Da ragazzo ero certo che il momento della stabilità sarebbe arrivato così, d’un tratto. Avrei trovato una donna di cui mi sarei innamorato, con cui avrei avuto dei figli e con cui avrei avuto una casa ma le cose sono andate diversamente».
Da ciò che so, lei e Hannah, con cui sta da circa vent’anni, avete due figli, una bella casa e i suoi romanzi sono tradotti in mezzo mondo.
«Non dico, difatti, che le cose poi devono andar male, ma che prendono strade ben diverse da quelle che ci saremmo aspettati. Soprattutto, ciò che intendo è che la lotta non si esaurisce mai, non arriva un momento nell’età adulta in cui d’un tratto sei tranquillo: c’è sempre qualcosa che trema nella tua vita, ci sono cambiamenti dietro l’angolo, nuove sfide».
Quarant’anni: sia in “Tu sei qui” sia in “One day”, i protagonisti trovano l’amore a quest’età, ed è qualcosa che fino a vent’anni fa sarebbe parsa strana.
«Oggi trovare l’amore o comunque intraprendere una relazione a quarant’anni è comune, in un passato neanche troppo lontano ci si sarebbe sentiti in ritardo: ci sono modelli di relazioni più liberi, più tolleranti dei desideri dell’individuo e che meno hanno a che fare con le aspettative degli altri».
Lei però scrive di storie d’amore canoniche.
«Perché sono di una generazione che viveva così le relazioni. Alcuni giorni fa, un giornalista mi ha chiesto cosa volessi scrivere dopo “Tu sei qui” e ho risposto una storia d’amore che accade nella Londra dei giorni nostri, lui mi ha chiesto se ne sarei capace e la cosa mi ha fatto riflettere. Sconosco il mondo delle app d’incontri e la gran parte della gente s’incontra lì, sconosco anche il linguaggio usato tra chi le usa, queste app. Quand’ero single io, trent’anni fa, uscivi con gli amici, al bar, al ristorante, a una festa in casa di altri amici, e forse lì per caso incontravi qualcuno, qualcuno che catturava la tua attenzione. Oggi di rado funziona così. O mi sbaglio? Me lo dica lei, se è single».
Sono single, sì. E ha ragione: nella gran parte dei casi, oggi, se si vuole incontrare qualcuno, che sia per sesso o per qualcosa di più duraturo, si usano le app. Ha detto che a essere cambiato è anche il linguaggio.
«Oggi c’è più franchezza quando si parla di sesso e di relazioni. S’incontra una persona e quel che si sta cercando si dice subito. Una cosa del genere ai miei tempi era impensabile: c’era imbarazzo».
Pensa che le cose siano migliorate o peggiorate?
«A me pare siano migliorate, l’onestà con cui ci si parla credo sia salutare, ma i miei amici single più giovani mi dicono che non è così. Lei che ne pensa?».
Credo che da un lato siano migliorate, dall’altro peggiorate. C’è sincerità e questo è un bene ma manca il mistero e questo è un male. Parliamo però di lei. Ha sempre scritto d’amore, dunque le chiedo: il suo primo amore?
«Lo ricordo bene! Siamo ancora in contatto. Avevamo sedici anni, recitavamo nella stessa compagnia, lei oggi fa ancora l’attrice. Era una ragazza sofisticata e divertente, intelligente. È stata un’iniziazione felice».
Amore a prima vista, come in “Un dolore così dolce”?
«Non lo definirei amore, eravamo troppo piccoli, ma una forte infatuazione. E un colpo di fulmine non l’ho mai avuto».
Una persona con cui non è mai riuscito a far quadrare i conti? Mi spiego: ha il suo what if?
«Me l’avesse chiesto vent’anni fa le avrei dato una lista di nomi (ride, ndr). Ma no, sono solo felice di come siano andate le cose».
La prima relazione vera?
«A 31 anni: Hannah - è ancora la mia partner, la madre dei miei figli».
Prima di lei niente?
«Prima ho avuto relazioni brevi e poco significative, di certo niente che potessi definire amore. Dai venti ai trent’anni sono stato molto solo».
Perché?
«Non ho vissuto granché bene quel periodo della mia vita. Non avevo mai soldi e vivevo in appartamenti minuscoli e bruttissimi, facevo l’attore ma sembrava non fossi tagliato per il mestiere. Ero, lo sono ancora, molto timido e faticavo a conoscere persone nuove. Sono stato depresso. Ho sofferto la solitudine. Ho sempre avuto amici stupendi al mio fianco, ma tornato a casa vedevo ovunque i miei fallimenti».
Cos’è cambiato?
«Ho conosciuto Hannah, appunto. E ho capito cosa mi piace fare, e per fortuna so farlo abbastanza bene e ho avuto la possibilità di farne il mio lavoro».
Allora parliamo di Hannah: ricorda il momento in cui ha pensato ok, è quella giusta.
«È successo subito e ho provato un sollievo enorme: la ricerca è finita, mi sono detto, ero felice».
Lo è ancora?
«Immensamente».
Perché non scriverci un romanzo, allora?
«Non credo si possano scrivere libri sulle relazioni felici, ho la sensazione che, a un certo punto, le cose debbano andar male, che debba avvenire un disastro. In “Un dolore così dolce” viene detto che in Romeo e Giulietta i momenti felici per la coppia possono essere racchiusi in una pagina e mezza. Il dolore serve».
Perciò ha ucciso Emma, alla fine di “One day”? Non glielo perdonerò mai.
«L’ho fatto anche per questo, sì» (ride, ndr.).
Lo rifarebbe?
«Non so se oggi nel romanzo la farei morire, in effetti. Voglio dire, sono sicuro sia la scelta migliore, ma con il tempo mi sono ammorbidito, e non lo rifarei».
Il tempo nei suoi romanzi è fondamentale. Lo è pure nella realtà?
«Sì. Da giovane desideravo volasse, volevo arrivare al punto in cui finalmente mi sarei sentito bene, realizzato. A quasi sessant’anni vorrei che rallentasse, ché ho la sensazione stia correndo: sto invecchiando».
Nicholls, abbiamo parlato del passato, la mia ultima domanda - che pongo sempre a tutti - è sul futuro. Immagini di avere ottant’anni e che sia una domenica mattina: dov’è, cosa fa, con chi è?
«Sono con Hannah e stiamo leggendo nella casetta in campagna che abbiamo preso per invecchiare tranquilli lontani dalla città. C’è silenzio, siamo in pace, aspettiamo i nostri figli per il pranzo».