Cultura
21 novembre, 2025Articoli correlati
Il rapporto conflittuale tra la scrittrice e Mary Roy. Figura centrale della lotta per i diritti delle donne in India. Le contraddizioni della non violenza. “Il mio rifugio e la mia tempesta”, il nuovo memoir dell’autrice indiana
Scrittrice, attivista, voce scomoda della democrazia indiana: Arundhati Roy è tra le più acute e radicali coscienze del nostro tempo. Premio Booker con il successo mondiale “Il dio delle piccole cose” (Guanda, 1997), dopo anni di impegno politico, tornò alla narrativa con “Il mistero della suprema felicità” (Guanda, 2017). Ora pubblica “Il mio rifugio e la mia tempesta” (Guanda, 2025), romanzo che affronta la presenza ingombrante e fondativa di sua madre, Mary Roy, figura centrale nella battaglia per i diritti delle donne in India. In queste pagine che parlano di esilio e appartenenza, la memoria diventa terreno di conflitto e riconciliazione e la scrittura il luogo in cui interrogare l’amore, la rabbia e l’eredità del dissenso.
Sua madre è stata il suo rifugio e la sua tempesta?
«Ho lasciato casa molto presto, a sedici anni, e poi ho smesso di tornare a casa. Sa perché me ne sono andata? Per poter continuare ad abbracciare mia madre: fossi rimasta sarebbe stato impossibile. Sono andata via prima che quel posto mi distruggesse. Ho avuto un’infanzia molto breve, è stato difficile, ma non ero interessata alla sofferenza: il mio piano era di essere felice».
In che modo – come lei scrive – sua madre le ha donato l’oscurità e, insieme, anche la libertà?
«Se vivi nella sicurezza e nell’amore, se a casa va tutto bene, guardi al mondo esterno con diffidenza, resti dove sei perché vuoi continuare a proteggerti. Se, invece, tutto questo non lo hai, non puoi fare altro che pensare che le cose là fuori siano migliori. Quando ho lasciato casa mia, non avevo ambizioni, non avevo aspettative né alcun desiderio di sicurezza: fuggii in una maniera totalmente spericolata. Non ero neanche spaventata e, quando non hai paura, diventi quella di cui le altre persone si preoccupano».
Chi ha pagato il prezzo per tutto questo?
«Soprattutto mia madre. Lei è rimasta in quella città e per la comunità ha fatto cose meravigliose. Ha creato una scuola, ha cambiato le leggi, ma è anche diventata una persona molto sola e amara. Non sapeva come amare i propri figli e questo è un prezzo terribile da pagare».
Lei racconta di una donna che privatamente ce l’aveva con gli uomini, ma pubblicamente si impegnava per costruire una generazione di uomini migliori.
«Il padre di mia madre era un uomo crudele e violento, suo fratello un prepotente, lei stessa è stata emotivamente molto violenta nei confronti del proprio figlio e aveva rapporti difficili con me. Eppure, all’interno della scuola che ha creato – e che ancora oggi esiste – ha cercato di formare un’intera generazione di uomini dolci e premurosi: si è assicurata di questo prima di lasciarli andare nel mondo».
Lei ha incontrato uomini migliori?
«Gli uomini sono una parte molto importante della mia vita e del mio amore. Con loro ho costruito rapporti bellissimi, almeno con chi non ha cercato di controllarmi. Mai ho permesso che definissero le mie emozioni o i miei sentimenti».
Lei scrive: il posto più sicuro può essere il più pericoloso. Come lo ha imparato?
«Grazie a mia madre. Lo stereotipo vuole che la maternità sia il posto più sicuro, ma per me era il più pericoloso, non vi trovavo alcun riparo. Ho smesso presto di fidarmi dell’idea di sicurezza e ancora oggi sono così: quando comincio a sentirmi al sicuro sospetto ci sia un trucco, una trappola, e cerco subito una via di uscita. È diventato un modo di vivere per me».
Cos’altro ha imparato da Mary Roy?
«C’è così tanta pressione sulle donne che devono incarnare un particolare tipo di madre ideale. Mia madre non era così, non aveva nulla di ideale, e questo, in qualche modo, ha dato anche a me lo spazio per poter essere una donna che non incarnasse nessuno stereotipo: è libertà».
Come ha vissuto il non essere mai abbastanza cristiana, mai abbastanza induista, mai abbastanza comunista, mai abbastanza gandhiana o – come risolve lei – il “non essere mai abbastanza”?
«Quando si chiude completamente un cerchio – quando si comincia a essere totalmente cristiana, induista, gandhiana o qualsiasi altra cosa – si entra in una sorta di schiavitù che impone anche le condizioni che non vuoi accettare. Non essere abbastanza, per me, è molto importante: significa libertà, significa non permettere a quel cerchio di chiudersi. Sa, la maggior parte della gente non è abbastanza, ma pochissimi hanno la capacità di ammetterlo. Credersi “abbastanza” rende le persone davvero insopportabili».
Quando le domandano «da dove viene?» lei risponde sempre «adesso sono qui».
«E lo ribadisco all’infinito. Quando sentivo dire a mia madre “avrei dovuto abortire”, quando diceva che non mi avrebbe voluta, io rispondevo: ma ora sono qui! Più il nostro mondo si frantuma, più noi ci colpiamo a morte con i nostri geni, i nostri dèi, le nostre bandiere, le nostre lingue, più la mia risposta a questa domanda rimane la stessa: adesso sono qui. Per me è davvero importante vedere i miei libri tradotti in cinquanta lingue. In Polonia o in Germania, ovunque, penso: sono qui ora. Sono qui perché chiunque capisce quel che scrivo, anche quando è molto specifico, anzi, proprio perché è molto specifico: riguarda tutti noi, la sostanza umana».
Come dice lei, il nostro mondo si frantuma. L’autoritarismo aumenta, le democrazie recedono. Quanto dipende, questo, dal capitalismo?
«I democratici negli Stati Uniti, il governo in India, i “Macron” vari, si considerano tutti democratici, ma hanno lavorato duramente per rendere la democrazia un mercato. Capitalismo e autoritarismo ballano insieme. Nel 2014, Narendra Modi divenne il primo ministro dell’India e si recò a Delhi volando a bordo di un aereo privato di proprietà della più grande azienda mineraria indiana: con quel gesto stava dicendo a tutti che fascismo e mercato sono una cosa sola. Non è solo una questione simbolica, ma letterale: quando le grandi aziende possiedono i media sono loro a decidere cosa è la libertà di parola, cosa è vero o falso, cosa fa notizia: è tutto deciso dal mercato. Il genocidio dei palestinesi non sarebbe potuto avvenire senza il capitale versato per finanziarlo. Poi l’America dice: negoziamo un cessate il fuoco. Ma come puoi negoziare un cessate il fuoco, mentre ancora firmi gli assegni?».
Davanti a un mondo in guerra, predicare la non violenza è un paradosso?
«La non violenza è una forma di teatro politico: può essere praticata soltanto quando c’è un pubblico e quando quel pubblico è in sintonia con ciò che viene detto. L’idea del pacifismo, in India, è stata usata da persone molto potenti per umiliare persone che non lo erano. Ha presente il sistema di caste indiano? È così gerarchico che puoi conviverci soltanto se non lo sfidi. Quella gerarchia può essere mantenuta solo con la violenza estrema. In alcuni casi non ha senso parlare di non violenza. Non ha senso parlare di non violenza in India, dove vivono milioni di indigeni le cui terre sono state date dal governo alle compagnie minerarie e alle grandi aziende. Non ha senso parlare di non violenza quando i paramilitari bruciano i villaggi e cacciano via la gente. Non ha senso parlare di non violenza quando la gente ha troppa fame per poter fare uno sciopero della fame. Quale forma di non violenza potrà mai praticare questa gente?».
Nel suo romanzo racconta dei piani che la società aveva per lei e di quello che invece, da sola, è riuscita a diventare. Alla fine, è riuscita a dimostrarsi “un uomo ragionevole”?
«(Ride). Non vorrò mai essere un uomo ragionevole, perché ho saputo separare la speranza dalla ragione. È importante essere irragionevole, perché è proprio quello che, a volte, può renderti più speranzoso. Anche questa si chiama libertà».

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