L'attivista è egiziana e italiana. Sui social spiega come intende la fede: «Il femminismo non è unico e universale per tutte le donne al mondo, per questo sono consapevole del fatto che ogni popolo porta avanti la propria cultura. Per me il velo è una libera scelta al pari di una minigonna»

Aya Mohamed è una giovane attivista, molto seguita su Instagram, dove la troverete con il nome di @milanpyramid. Con la sua sagacia e la sua cultura, è riuscita ad avvicinare la sua generazione con importanti riflessioni sull’inclusività nei confronti delle donne musulmane, anticipando anche ciò che oggi fanno molti brand con collezioni progressiste. «Condividevo con gli altri il modo in cui combinavo il velo al mio stile. Non era così popolare nei negozi mainstream, oggi molti brand fanno collezioni anche modest fashion. C’è maggiore apertura e attenzione». Oggi Aya affianca la sua passione per la moda a eventi culturali, facendo convergere la musica, la moda, il cibo e l’arte.

 

«Sono nata in Egitto, ma i miei genitori vivevano dagli anni ’80 in Italia, dove siamo rientrati quando avevo quattro mesi. Non ho mai avuto problemi nella mia infanzia, guardavo il mondo in modo innocente. Ho avuto anche all’asilo momenti interculturali, di grande apertura. Forse questa innocenza mi è venuta a mancare durante l’adolescenza, quando ho iniziato a farmi alcune domande. La più grande forma di emarginazione è arrivata dalla cultura burocratica italiana».

 

Aya non aveva la cittadinanza italiana e ha impiegato sette anni per ottenerla; e ciò per lei è stato un grande ostacolo, non solo nella pratica – dai finanziamenti più banali come per iscriversi in palestra o per viaggiare con i compagni in Paesi fuori dall’Unione europea – ma anche e soprattutto a livello psicologico. «Uscivo dal Comune piangendo perché c’erano sempre impedimenti logistici. Mi sentivo italiana ed egiziana, entrambe le cose, ma non potevo esercitare questa cittadinanza. Quando sento parlare di mancata integrazione provo disappunto per questo termine perché presuppone che ci sia una cultura dominante. Non serve integrarsi, ma interagire fra culture nel rispetto reciproco. Che non vuole dire uguaglianza, ma parità. Dire “noi e loro” è un pregiudizio. Il problema è che abbiamo normalizzato e palesato il razzismo».

 

Aya, a diciotto anni, ha anche iniziato a indossare il velo per scelta e solo lei in casa, perché le sue sorelle non lo fanno e sua madre interpreta in modo differente da lei il velo, indossando un altro copricapo. «Indossare il velo è una scelta femminista, soprattutto oggi. Io credo in un femminismo intersezionale perché lo sono le nostre esperienze. Il femminismo non è unico e universale per tutte le donne al mondo, per questo sono consapevole del fatto che ogni popolo porta avanti la propria cultura. Per me il velo è una libera scelta al pari di quello delle suore o di una minigonna. Le suore e le ragazze musulmane sono diverse, ma il loro committment nelle rispettive fedi è la prima cosa che vediamo. Quando una donna viene uccisa perché non indossa il velo, questo omicidio non può diventare un’etichetta per tutti i Paesi musulmani. Il problema in quel caso è politico, non religioso. Il problema è la teocrazia errata non basata sul Corano. Quando si impedisce a una donna musulmana di guidare non è scritto nel Corano e non è un divieto applicato in tutti i Paesi musulmani. Dobbiamo distinguere. Il velo è un codice di abbigliamento, l’Islam è anche uno stile di vita con regole per uomini e donne. Quando lo indosso, le persone sanno che sono musulmana. È il mio modo di manifestarlo: un esercizio spirituale come digiunare o pregare».