L'attentato alle Torri gemelle fu trasmesso in diretta sospendendo il popolare programma per bambini piccoli. Un evento che ha segnato una generazione ed è in qualche modo simbolico. Tra crisi nell’economia, in politica, nell’ambiente e scelte in sottrazione, gli scrittori Caminito, Olivo, Salvioni, Valoppi raccontano come vivono i millennial

Uno dei nostri primi ricordi, nonché uno dei più vividi, netti, è l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Eravamo piccoli, dei bimbi, avevamo dieci, otto, sei anni, eravamo davanti alla tivù e, come ogni pomeriggio, guardavamo la Melevisione, quando il programma è stato bloccato e, al posto dei protagonisti, è comparsa una donna dall’espressione seria - giacca bianca, caschetto biondo: Peppi Franzelin, conduttrice Rai. «Interrompiamo il programma la Melevisione per un’edizione straordinaria del TG3», la sigla del telegiornale, poi il racconto di ciò che stava accadendo; gli aerei dirottati che s’infrangevano sulle Torri, gli Stati Uniti sotto shock, l’Occidente che, senza consapevolezza alcuna, iniziava un nuovo capitolo della propria Storia. Noi, però, quel pomeriggio, sul divano, al tavolo della cucina, a casa di un amico, eravamo solo dei bambini e, sebbene la gravità della faccenda potessimo un po’ scorgerla sul volto degli adulti lì con noi, in mente avevamo un dubbio solo: perché ci hanno tolto la Melevisione?

 

Il programma tra i bimbi degli anni Novanta era popolare e se chiedeste a un gruppo di Millennial - appunto: i nati a cavallo degli anni Novanta - dove si trovassero, che stessero facendo quando le Torri Gemelle sono state attaccate la gran parte vi risponderebbe che sì, in effetti stava guardando la Melevisione. Centinaia di migliaia di bambini l’attentato a uno dei simboli dell’Occidente lo hanno visto in diretta tivù e, soprattutto, senza soluzione di continuità con quel che avevano davanti agli occhi pochi istanti prima; da Tonio Cartonio alle Torri che crollavano. Sì, ovvio, eravamo in Italia, e non negli Stati Uniti, e sì, ovvio, eravamo tanto piccoli da non avere reale contezza di ciò che stesse accadendo - non che gli adulti ne sapessero tanto più di noi, in effetti - ma il nocciolo della questione per noi bambini, per noi futuri Millennial, non erano quei due edifici in fiamme, che lenti crollavano: il punto era che ci avevano tolto il nostro programma, ragion per cui quel pomeriggio abbiamo iniziato a crescere.

 

La scrittrice Giulia Caminito

 

Sottrazione. All’adultità ci si arriva soprattutto per sottrazione. Ci viene tolto qualcosa e quindi noi, per compensare la perdita, ci alteriamo, cambiamo: cresciamo, ecco. Bene, per noi Millennial la prima reale sottrazione collettiva è avvenuta il pomeriggio dell’11 settembre 2001. Allora abbiamo imparato che a volte possiamo esser privati di qualcosa, che quando capita dobbiamo operarci, senza poi molto lamentarci, per riempire lo spazio rimasto vuoto e, da allora, lo abbiamo sempre fatto. Se questo della sottrazione, cui segue la compensazione, è un principio valido in generale, per tutti, su di noi, noi trentenni, Millennial, è applicabile soltanto fino a un certo punto. D’un tratto difatti qualcosa in questo meccanismo si è inceppato e noialtri oggi ci troviamo senza gli strumenti adatti a compensare una sottrazione specifica: ci è stato rubato qualcosa che non può essere sostituito e, benché dei tentativi di compensare li abbiamo fatti - diversi, a onor del vero -, ogni sforzo atto a riequilibrare la situazione pare inutile.

 

Ci è stato tolto il futuro, ecco cosa - pezzo per pezzo. La crisi politica perpetua e senza fine in cui viviamo dalla nascita della Seconda Repubblica - che, tra l’altro, è Millennial pure lei. La crisi economica scoppiata nel 2006, e mai davvero sanata. La crisi dell’occupazione che è stata sua conseguenza. La crisi climatica che ci sta divorando, facendosi sempre più violenta - e che non farà prigionieri, e di cui nessuno dell’attuale classe politica pare curarsi davvero. La crisi, le crisi: crisi, crisi, crisi. Noialtri siamo nati sotto il segno della crisi. Una appresso all’altra, anzi no: una ingarbugliata all’altra, anzi no: una figlia dell’altra, anzi no: una contraccolpo dell’altra. E adesso, con la sensazione netta che queste crisi si siano pigliate per mano e, vicine tra loro, ci sbarrino la strada, viviamo, noi Millennial, con una certezza molto specifica: ci è stato tolto il futuro. In chi ci ha preceduti è mancata la lungimiranza, forse, non ha fatto i conti con l’idea che il mondo l’avrebbe lasciato in eredità ai suoi stessi figli, e ha sperperato come se il pianeta in ogni suo angolo, declinazione, potesse reggere dei ritmi tanto scellerati.

 

Che le crisi di cui sopra abbiano debilitato il nostro Paese è indubbio, ciò che è difficile da cogliere per chi è più grande di noi, e tutte queste crisi non le ha vissute sulla propria pelle nel periodo di una costruzione personale feroce com’è quella che avviene a trent’anni, è come questi collassi abbiano rimodellato il modo di abitare il presente e di percepire il futuro di un’intera generazione.

 

La scrittrice Beatrice Salvioni

 

Il presente, il nostro presente - e come lo abitiamo. Guadagniamo poco, e guadagniamo poco soprattutto rispetto a un costo della vita in continuo aumento - secondo i dati Istat il 43 per cento degli under 35 ha uno stipendio inferiore ai mille euro -, e guadagniamo poco anche rispetto a chi ci ha preceduti - nel 1985 il salario di un lavoratore di 55 anni era maggiore del 15 per cento rispetto a quello di un lavoratore con meno di 35 anni, oggi questo divario supera il 30 per cento. Lavoriamo tanto, e lavoriamo tanto nonostante spesso i contratti siano a tempo determinato, si succedano fino al limite massimo e non portino a un’assunzione a tempo determinato. Viviamo con quel che abbiamo, e quel che abbiamo quasi mai è sufficiente ad affrontare un costo della vita che aumenta di anno in anno; dalle grandi cose, organizzare un matrimonio con 100 invitati costa 25mila euro - fonte Will -, alle piccole, per un gelato spendevamo 77 centesimi nel 2001 oggi 2,50 euro - per Alma Laboris. Abitiamo con i nostri genitori, un under 35 su due vive ancora sotto il tetto di famiglia, e non perché, come si dice ogni tanto, ci piaccia esser coccolati ma perché non abbiamo altra scelta: comprare casa oggi, in questa situazione, è davvero complicato: 100 metri quadrati nel 1985 costavano 85mila euro, oggi 182.500 euro - fonte Will.

 

Come abitiamo, quindi, il contemporaneo? Come fossimo relegati a una sorta di presente continuo in cui di spazio per la progettualità ce n’è poco, un presente continuo in cui ci arrabattiamo, in cui lottiamo con un forte senso d’incompletezza. Il nostro precariato, sbocciato nel terreno delle crisi, ha ormai connotati esistenziali.

 

Lo scrittore Paolo Valoppi

 

Andrà tutto male, davvero? Il futuro, il nostro futuro - e come lo percepiamo. «La nostra identità si è abituata a queste crisi», dice Giulia Caminito, autrice di “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani). «Si è abituata alla precarietà emotiva in cui siamo cresciuti, e, in risposta, siamo diventati più isolati. Ogni cosa pare destinata a non durare, perciò il senso di progettare non lo vedo. Io di piani per i prossimi anni non ne ho, sento di potermi concentrare solo su ciò che è vicino». Progettare il futuro per noi è difficile, troppe sono le mine piantate lungo il percorso, e se le generazioni precedenti vedevano nel loro domani auto volanti e città ipertecnologiche, noi, causa crisi climatica, scorgiamo un deserto. Avere dei figli, con la prospettiva di un Pianeta che presto morirà urlando, ci pare illogico. «Per me non è un freno ma uno scrupolo sì», afferma Paolo Valoppi, in libreria con “Mio padre avrà la vita eterna ma mia madre non ci crede” (Feltrinelli). «Confesso che in me prevale l’egoismo, e rinunciare ad aver dei figli per la crisi climatica è un sacrificio che non riesco a immaginare di fare», aggiunge. Occhio a dirlo però, che di figli forse non ne vogliamo, che magari preferiamo adottare un cane o due gatti. Certi politici, la ministra Roccella fra tutti, paiono certi che la scelta per noi trentenni sia tra Spritz e figli, e che abbiamo optato per una sorta di aperitivo senza fine. La realtà è che in alcuni casi abbiamo altre priorità, in altri i bimbi non ci piacciono e basta, in altri siamo talmente preoccupati per il futuro da credere o di non poterci permettere di aver dei figli o che, appunto, metter al mondo altre persone sia un errore. «Quando penso alla possibilità di fare dei figli a me spaventa l’idea che di aiuti per i neo-genitori ce ne siano davvero pochi. Il congedo parentale, ad esempio, è ridicolo», racconta Greta Olivo, autrice di “Spilli” (Einaudi). Nulla di nuovo sotto al sole: lo scontro con chi ci ha preceduti è sempre acceso ma non c’è novità, in questo: è naturale, anzi, si crei una frattura tra chi il mondo l’ha governato e chi si appresta a farlo. «La sfiducia che le vecchie generazioni hanno per le nuove è data anche alla paura delle vecchie di essere sbugiardate», spiega Beatrice Salvioni, autrice di “La malnata” (Einaudi). «È fisiologico che ogni generazione veda nella seguente una classe di esagerati o di scansafatiche, però penso che oggi questo distacco si sia inasprito. Protestiamo per ciò in cui crediamo, l’ambiente, la Palestina, e per loro abbiamo ideali sbagliati. Ci lamentiamo di situazioni che viviamo con disagio, che sentiamo di dover modificare per abitare meglio nel mondo, e per loro siamo scansafatiche.”. E Olivo è d’accordo: «È sempre stato così: chi viene prima mangia di più, è ingordo. A mancare è la comunicazione - e credo sia propria dell’uomo questa incapacità». Quindi? «Quindi l’instabilità l’abbiamo addosso, e non sappiamo cosa fare, ché la gran parte delle direzioni ci paiono sbarrate. Siamo il cane del meme che, in una stanza in fiamme, dice che è tutto okay», conclude Salvioni.

 

La scrittrice Greta Olivo

 

Quindi? Ci sentiamo impotenti e spesso forzati all’acquiescenza, ignorati o malintesi, guardati con le lenti sbagliate, nel pieno di in una crisi senza fine, costretti in un presente continuo su cui non possiamo esercitare potere, imbrigliati in definizioni che non abbiamo scelto noi. Ci sentiamo come quando la Melevisione è stata interrotta, come nei momenti successivi: il mondo del futuro crolla, il vecchio è sparito.